Il Consiglio di Stato con Sentenza 5751/2018 ha affrontato il problema dei responsabili dell’ufficio legale comunale che talora chiedono di essere inquadrati a dirigente.
Il Collegio ha osservato che nessuna disposizione di legge o di regolamento stabilisce che le prerogative di autonomia e indipendenza dell’avvocato dipendente di un ente pubblico comportino in via necessaria il riconoscimento della qualifica dirigenziale.
Inoltre il Collegio ha ritenuto:
– che il riconoscimento o meno della qualifica dirigenziale rientra comunque nell’ambito delle competenze organizzative della Giunta (la quale, nell’adottare le relative determinazioni, si rapporterà secondo il principio di proporzionalità alle concrete circostanze del caso, ivi compresa la dimensione organizzativa del singolo ente). Ebbene, anche sotto tale profilo non emergono in atti palesi profili di abnormità connessi alla scelta di non attribuire la qualifica dirigenziale al coordinatore dell’Ufficio legale del Comune di Assisi;
– che, secondo quanto riferito dalla stessa appellante, la stessa è il solo dipendente addetto all’Ufficio legale, il che conferma la complessiva congruità della scelta di non riconoscere la qualifica dirigenziale al coordinatore di un Ufficio di ridottissime dimensioni (e, di fatto, unipersonale);
Ed ancora, non può essere condivisa la tesi riportata a pag. 17 dell’atto di appello secondo cui solo con l’attribuzione della qualifica dirigenziale sarebbe possibile riconoscere piena e adeguata autonomia tecnico-gestionale ai coordinatori degli uffici e dei servizi comunali.
Si osserva in contrario – oltre la richiamata giurisprudenza della Sezione – che è lo stesso Testo unico degli enti locali ad ammettere che (nei comuni privi di dirigenza) le funzioni di cui all’articolo 107 possano essere demandate ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla qualifica funzionale formalmente posseduta (in tal senso, l’articolo 109, comma 2, del medesimo Testo unico).
Non può poi trovare accoglimento il motivo di ricorso con cui si è lamentata l’erroneità della sentenza per avere respinto il motivo articolato avverso il mancato riconoscimento dell’orario flessibile (quale prerogativa ‘istituzionale’ del munus di avvocato dipendente).
Va premesso al riguardo che dalla concreta articolazione del motivo non è del tutto chiaro se la censura riguardi “lo svilimento della autonomia del servizio” (in tal senso la pagina 20 dell’atto di appello) ovvero concrete difficoltà frapposte all’ottimale espletamento delle attività d’ufficio.
In ambo i casi ostano all’accoglimento della censura: i) il fatto che la stessa appellante ammetta di avere ottenuto misure di flessibilizzazione dell’orario; ii) il fatto che l’appellante non alleghi fatti e circostanze puntuali idonee a dimostrare che la mancata concessione ‘a regìme’ dell’orario flessibile abbia ostacolato l’esercizio delle attività di competenza.
Al riguardo ci si limita ad osservare che il rispetto dell’orario di servizio (sia pure temperato attraverso forme di flessibilizzazione volte a tener conto delle peculiarità delle funzioni svolte) non rappresenta una sorta di prerogativa professionale indefettibile dell’avvocato dipendente (nel senso – ad esempio – che il rispetto di un certo monte ore lavorativo rappresenti di per sé una misura idonea a svilire il munus dell’avvocato).
Le richiamate forme di flessibilizzazione, in definitiva, non costituiscono una prerogativa individuale finalizzata a preservare lo status dell’avvocato dipendente (nell’esclusivo interesse di quest’ultimo), ma costituiscono – piuttosto – misure volte a migliorare e funzionalizzare l’attività professionale svolta (nell’interesse generale dell’ottimale organizzazione dell’attività lavorativa).
Non può poi trovare accoglimento il motivo di appello con cui si è chiesta la riforma della sentenza per la parte in cui ha respinto il motivo relativo al carattere “irrazionale e sovrabbondante” di alcune fra le funzioni attribuite all’Ufficio legale.
L’appellante sottolinea nella presente sede di appello l’irragionevolezza delle numerose clausole organizzative che risulterebbero idonee ad innestare in capo all’avvocato dipendente funzioni e compiti di carattere pressoché indefinito (vengono all’uopo richiamate locuzioni del tipo “(…) ogni altra attività affidatagli dal segretario generale nell’esercizio di ogni altra funzione conferitagli dal Sindaco”).
Si osserva in primo luogo che il motivo non può trovare accoglimento in quanto – ancora una volta – l’appellante risulta priva di legittimazione e interesse ad impugnare le prerogative generali dell’ufficio presso il quale risulta incidentalmente incardinata e del quale non ha comunque la rappresentanza legale.
Si osserva in secondo luogo che le richiamate clausole (alcune delle quali sono riportate de extenso alla pag. 21 dell’atto di appello) non comportando di per sé alcun irrazionale o indefinito ampliamento delle funzioni demandate all’Ufficio legale.
Infatti (come bene osservato dall’appellata sentenza) le richiamate previsioni organizzative rappresentano ‘clausole di chiusura’ di carattere usuale nella pratica organizzativa e non possono che essere intese nel senso di limitare il possibile ampliamento di competenze a quanto strettamente inerente le funzioni tipiche dell’Ufficio legale.
E’ evidente che, a fronte di due possibili interpretazioni delle richiamate clausole (una volta ad ammettere un irragionevole ampliamento delle funzioni dell’ufficio e un’atra volta ad ammettere ampliamento di carattere limitato, settoriale e coerente con il suo assetto di fondo), l’interprete debba senz’altro aderire alla seconda impostazione, non aderendo a percorsi interpretativi in malam partem di carattere meramente potenziale.