INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA: SERVE PIU’ SINERGIA TRA AZIENDE SANITARIE E AMMINISTRATORI LOCALI

Nell’ambito del Forum Risk Management tenutosi a Firenze in questi giorni c’è stato un Convegno organizzato da Federsanità dal titolo:”Salute, sindaci e cittadini. Ruolo e responsabilità degli amministratori in ambito sanitario e socio assistenziale” . E’ stato ricordato come il Sindaco sia la prima autorità sanitaria sul territorio e per questo responsabile della condizione di salute della sua popolazione tutelata dell’articolo 32 della Costituzione. La promozione del benessere dell’individuo e quindi della collettività, in un sistema sanitario universalistico, si concretizza attraverso l’implementazione di interventi integrati diretti ad incidere sui determinanti culturali, socio-economico, ambientali, sull’adeguatezza, sull’appropriatezza, efficacia e sicurezza dei servizi offerti.  In questo scenario il ruolo degli amministratori è prioritario per attuare politiche locali per la salute basate sulle evidenze scientifiche e sui dati di performance e degli esiti clinici.

“In particolare – ha evidenziato nel suo intervento Tiziana Frittelli, Presidente di Federsanità ANCI -sono stati proposti, come contribuito al Patto della Salute,  i cardini di quello che è ormai conosciuto come modello delle “Reti cliniche integrate e strutturate. L’aumento della cronicità e fragilità rappresentano il “banco di prova” per la sostenibilità del SSN. La visione prevalente, fortemente orientata alla risposta medico specialistica erogata negli ospedali – non è in grado di affrontare la sfida dei nuovi bisogni di salute e la presa in cura delle cronicità né il contenimento delle loro complicanze. Pertanto, in linea con il programma Health 2030 e con il Piano nazionale Cronicità, abbiamo proposto un nuovo modello professionale e organizzativo, già sperimentato in Italia che, declinando il Population Health management si basa su cinque P: prevenzione, prossimità, proattività, personalizzazione, partecipazione”. 

Infine la presidente Frittelli ha sottolineato l’importanza della sinergia tra governance delle aziende sanitarie e ruolo dei rappresentanti degli Enti Locali per la realizzazione di percorsi di cura integrati sempre più personalizzati e incentrati sui servizi sul territorio.

MANTENIMENTO DELLE CONDIZIONI DEI DIRITTI DEI LAVORATORI NEL CASO DI AFFIDAMENTO DEI SERVIZI DI PULIZIA AD UNA DITTA DIVERSA DA QUELLA PRECEDENTE.

Lussemburgo: Corte di Giustizia Europea

Il 26 novembre scorso l’avvocato generale della Corte di Giustizia Europea Maciej Szpunar ha presentato le proprie conclusioni nel corso della Causa C-344/18 tra la ISS Facility Service e Sonia Govaerts in merito al mantenimento dei diritti dei lavoratori nel caso in cui , a seguito di una gara per l’affidamento dei servizi di pulizia ci sia un trasferimento da un’impresa ad un’altra dei lavoratori

Al riguardo l’avvocato generale della Curia ha ritenuto di proporre alla Corte quanto segue:

 L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, dev’essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale in virtù della quale, in caso di simultaneo trasferimento di diverse parti di un’impresa, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva a cessionari diversi, i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto di lavoro in essere al momento del trasferimento, per ciascuno dei settori dell’impresa trasferita, si trasferiscono a ciascuno dei cessionari in proporzione alle funzioni svolte dal lavoratore.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui la scissione del contratto di lavoro in questione si riveli impossibile tra i due cessionari o pregiudichi il mantenimento dei diritti dei lavoratori garantiti dalla direttiva 2001/23, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, o qualora il lavoratore si opponga, dopo il trasferimento dell’impresa, alla scissione del suo contratto, il contratto di lavoro o il rapporto di lavoro di cui trattasi può essere risolto e tale risoluzione deve essere considerata come dovuta alla responsabilità del o dei cessionari ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, di tale direttiva.

L’ANAC PROSEGUE DIRITTA PER LA SUA STRADA E APPROVA IL NUOVO PIANO NAZIONALE ANTICORRUZIONE 2019-2021

Il Consiglio direttivo dell’ANAC con deliberazione del 13 novembre 2019, n. 1064 ha approvato in via definitiva il Piano Nazionale Anticorruzione 2019-2021.
All’esito di un’ampia consultazione pubblica, l’Autorità nazionale anticorruzione ha pubblicato il nuovo Piano nazionale anticorruzione (PNA) per il triennio 2019-2021. Con l’intento di agevolare il lavoro delle amministrazioni, tenute a recepire nei loro Piani anticorruzione le indicazioni contenute nel PNA, l’Anac ha deciso di intraprendere un percorso nuovo: rivedere e consolidare in un unico atto di indirizzo tutte le indicazioni fornite fino ad oggi, integrandole con orientamenti maturati nel corso del tempo e oggetto di appositi atti regolatori.
L’obiettivo è di rendere il PNA uno strumento di lavoro utile per chi, a vari livelli, è chiamato a sviluppare ed attuare le misure di prevenzione della corruzione.
Questa ulteriore iniziativa finalizzata a supportare le amministrazioni è accompagnata anche da novità nella veste grafica, quali la previsione di appositi riquadri per agevolare la lettura e la presenza di collegamenti ipertestuali per facilitare la consultazione dei provvedimenti emanati dall’Autorità nel corso degli anni.
Oramai le amministrazioni pubbliche non avranno più scuse.

UNA NUOVA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO SULLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME

CONCESSIONE DEMANIALI MARITTIMA

La sezione VI del Consiglio di Stato con sentenza n. 7874/2019 ha confermato che a seguito della soppressione dell’istituto del “diritto di insistenza”, ossia del diritto di preferenza dei concessionari uscenti, l’amministrazione che intenda procedere a una nuova concessione del bene demaniale marittimo con finalità turistico-ricreativa, in aderenza ai principi eurounitari della libera di circolazione dei servizi, della par condicio, dell’imparzialità e della trasparenza, ai sensi del novellato art. 37 cod. nav., è tenuta ad indire una procedura selettiva e a dare prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico; l’obbligo di procedere all’affidamento delle concessioni demaniali marittime mediante procedura di gara.

Qui di seguito un estratto della sentenza: “Prima ancora della nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 (in cause riunite C-458/14, Promoimpresa S.r.l. e C-67/15, Mario Melis e altri), la giurisprudenza aveva già largamente aderito all’interpretazione dell’art. 37 cod. nav. che privilegia l’esperimento della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, derivanti dalla direttiva 123/2016, essendo pacifico che tali principi si applicano anche a materie diverse dagli appalti, in quanto riconducibili ad attività, suscettibile di apprezzamento in termini economici.

In tal senso si è del resto espresso, già da tempo risalente, il Consiglio di Stato che ha ritenuto applicabili i detti principi “anche alle concessioni di beni pubblici, fungendo da parametro di interpretazione e limitazione del diritto di insistenza di cui all’ art. 37 del codice della navigazione”, sottolineandosi che “la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione”(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2005 n. 168 e, nello stesso senso, in epoca più recente Cons. Stato, Sez. VI, 31 gennaio 2017 n. 394), segnalando l’esigenza di una effettiva ed adeguata pubblicità per aprire il confronto concorrenziale su un ampio ventaglio di offerte (cfr., in epoca ancora antecedente ed in via generale, Cons. Stato, Sez. VI, 15 febbraio 2002 n. 934).

In argomento la Commissione Europea aveva affermato che “la circostanza che le direttive comunitarie in materia di appalti siano attuative dell’art. 81 del Trattato porta in sostanza a ritenere che queste norme siano puramente applicative, con riferimento a determinati appalti di principi generali che essendo sanciti in modo universale dal Trattato, sono ovviamente valevoli anche per contratti e fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate” (così nella Comunicazione 29 aprile 2000 nonché la pressoché coeva sentenza della Corte di giustizia UE 7 dicembre 2000, in causa C-324/98).

Per quanto si è già ricordato, da ultimo detti principi sono stati riaffermati dalla Corte di Giustizia UE, nella sentenza Sez. V, 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, ad avviso della quale “L’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati

Da tale sentenza, si desume che la proroga ex lege delle concessioni demaniali aventi natura turistico-ricreativa non può essere generalizzata, dovendo la normativa nazionale ispirarsi alle regole della Unione europea sulla indizione delle gare.

La Corte di Giustizia, più specificamente, chiamata a pronunciarsi sulla portata dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE (cd. Bolkestein) del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (direttiva servizi), ha affermato, in primo luogo, che le concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo rientrano in linea di principio nel campo di applicazione della suindicata direttiva, restando rimessa al giudice nazionale la valutazione circa la natura “scarsa” o meno della risorsa naturale attribuita in concessione, con conseguente illegittimità di un regime di proroga ex lege delle concessioni aventi ad oggetto risorse naturali scarse, regime ritenuto equivalente al rinnovo automatico delle concessioni in essere, espressamente vietato dall’art. 12 della direttiva.

In secondo luogo, la Corte di giustizia ha affermato che, per le concessioni alle quali la direttiva non può trovare applicazione, l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) osta a una normativa nazionale, come quella italiana oggetto dei rinvii pregiudiziali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo.

Come è stato chiarito anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 11 giugno 2018 n. 3600; Sez. VI, 10 luglio 2017 n. 3377 e 13 aprile 2017 n. 1763):

– l’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 (convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2010, n. 25) – come modificato dall’articolo 34-duodecies, comma 1, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221), e, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall’art. 1, comma 547, l. 24 dicembre 2012, n. 228 -, statuiva come segue: “Ferma restando la disciplina relativa all’attribuzione di beni a regioni ed enti locali in base alla legge 5 maggio 2009, n. 42, nonché alle rispettive norme di attuazione, nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento di tali concessioni, sulla base di intesa in sede di Conferenza Stato-regioni ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, che è conclusa nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui all’articolo 37, secondo comma, secondo periodo, del codice della navigazione, il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2015 è prorogato fino al 31 dicembre 2020, fatte salve le disposizioni di cui all’articolo 03, comma 4-bis, del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494. All’articolo 37, secondo comma, del codice della navigazione, il secondo periodo è soppresso”;

pertanto, in seguito alla soppressione, in ragione delle disposizioni legislative sopra richiamate, dell’istituto del “diritto di insistenza”, ossia del diritto di preferenza dei concessionari uscenti, l’amministrazione che intenda procedere a una nuova concessione del bene demaniale marittimo con finalità turistico-ricreativa, in aderenza ai principi eurounitari della libera di circolazione dei servizi, della par condicio, dell’imparzialità e della trasparenza, ai sensi del novellato art. 37 cod. nav., è tenuta ad indire una procedura selettiva e a dare prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico;

a fronte dell’intervenuta cessazione del rapporto concessorio, come sopra già evidenziato, il titolare del titolo concessorio in questione può vantare un mero interesse di fatto a che l’amministrazione proceda ad una nuova concessione in suo favore e non già una situazione qualificata in qualità di concessionario uscente, con conseguente inconfigurabilità di alcun obbligo di proroga ex lege o motivazionale dell’amministrazione;

ne deriva che l’operatività delle proroghe disposte dal legislatore nazionale non può che essere esclusa in ossequio alla pronuncia del 2016 del giudice eurounitario, comportante la disapplicazione dell’art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009 e dell’art. 34-duodecies, d.l. 179/2012, di talché la proroga legale delle concessioni demaniali in assenza di gara non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento, come del resto la giurisprudenza nazionale ha in più occasioni già riconosciuto (cfr., per tutte e tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 27 febbraio 2019 n. 1368).

Del resto, più volte il Consiglio di Stato ha sancito in via generale l’illegittimità di una normativa sulle proroghe ex lege della scadenza di concessioni demaniali, perché equivalenti a un rinnovo automatico di per sé ostativo a una procedura selettiva. Inoltre, già decisioni precedenti della CGUE avevano affermato l’illegittimità di leggi regionali contemplanti, a talune condizioni, la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo al già titolare, evidenziando che proroga e rinnovo automatico, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni o ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione, violano in generale i principi del diritto comunitario su libertà di stabilimento e tutela della concorrenza.

In conclusione, alla luce del prevalente indirizzo giurisprudenziale, non è in alcun modo riscontrabile una proroga automatica ex lege di una concessione demaniale marittima.

Ciò significa che anche la più recente proroga legislativa automatica delle concessioni demaniali in essere fino al 2033, provocata dall’articolo unico, comma 683, l. 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021) che così testualmente recita: “Al fine di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese, e tutelare l’occupazione e il reddito delle imprese in grave crisi per i danni subiti dai cambiamenti climatici e dai conseguenti eventi calamitosi straordinari, le concessioni di cui al comma 682, vigenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, nonché quelle rilasciate successivamente a tale data a seguito di una procedura amministrativa attivata anteriormente al 31 dicembre 2009 e per le quali il rilascio è avvenuto nel rispetto dell’articolo 18 del decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 1952, n. 328, o il rinnovo è avvenuto nel rispetto dell’articolo 02 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici. Al termine del predetto periodo, le disposizioni adottate con il decreto di cui al comma 677 rappresentano lo strumento per individuare le migliori procedure da adottare per ogni singola gestione del bene demaniale” – è coinvolta, con le conseguenze del caso, nel ragionamento giuridico sopra esposto e ciò, non solo perché detta disposizione rievoca norme nazionali già dichiarate in contrasto con l’ordinamento eurounitario dalla corte di giustizia nel 2016 (determinando una giuridicamente improbabile reviviscenza delle stesse) ma, a maggior ragione, dopo il recente intervento della Corte di giustizia UE che, nella sentenza 30 gennaio 2018, causa C-360/15 Visser, ha esteso addirittura la platea dei soggetti coinvolti dalla opportunità di pretendere l’assegnazione della concessione demaniale solo all’esito dello svolgimento di una procedura selettiva.

Il Collegio, per completezza d’esame, ritiene di dovere dare conto della circostanza che la più volte citata sentenza della Corte di giustizia UE, sebbene abbia dichiarato che le disposizioni nazionali che consentono la proroga generalizzata ed automatica delle concessioni demaniali fino al 31 dicembre 2020 contrastano con l’ordinamento comunitario (si tratta del già menzionato art. 1, comma 18, d.l. 194/2009, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 34-duodecies d.l. 179/2012, articolo introdotto in sede di conversione con l. 221/2012), ha nel contempo però precisato che una proroga di una concessione demaniale è giustificata laddove sia finalizzata a tutelare la buona fede del concessionario, ovverosia qualora questi abbia ottenuto una determinata concessione in un periodo in cui “non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”.

La tutela della buona fede del concessionario, quindi, va relazionata alla data di adozione della direttiva 2006/123/CE (cosiddetta Bolkestein), cosicché nell’ipotesi di concessione demaniale marittima rilasciata in data antecedente, secondo la Corte di giustizia, la cessazione anticipata della concessione “deve essere preceduta da un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare, dal punto di vista economico”.

Orbene, nel caso di specie la concessione iniziale è stata rilasciata nel 1999 prima che fosse scaduto il termine di recepimento della direttiva Bolkestein (28 dicembre 2009) e prima che lo Stato italiano la attuasse tramite il d.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010, con conseguente conformità al diritto dell’Unione europea dell’applicazione alla concessione oggetto di causa della (sola) proroga prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 194 del 2009, tuttavia pare evidente che le successive proroghe non possano essere assistite dal principio (sopra espresso) della “buona fede” del concessionario, essendosi consumata la possibilità di aderire alla posizione “mitigativa” già a far data dal secondo rinnovo.

– Sotto altro versante (come già ha chiarito la Sezione nella sentenza 6 giugno 2018 n. 3412) va affermato che il rinnovo automatico della concessione demaniale marittima, provocato dalle norme di legge succedutesi nel tempo e precedentemente ricordate, non integra un provvedimento amministrativo a formazione tacita né, come è avvenuto nel caso qui in esame, abilita l’ente ad adottare un provvedimento amministrativo a portata costitutiva.

Si è condivisibilmente affermato nella sentenza della Sezione precedentemente richiamata che “Invero, in un ordinamento ispirato al principio di legalità, non può essere qualificato come provvedimento, ancorché tacito, un mero contegno di fatto non riconoscibile come espressione del potere amministrativo. Poiché per l’art. 2 della legge n. 241/90 l’amministrazione ha l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, si deve ritenere che i provvedimenti taciti e i “silenzi significativi” siano configurabili solo nei casi espressamente previsti dalla legge (con impossibilità di applicazione analogica delle relative disposizioni). Nello specifico, le disposizioni legislative innanzi citate, con le quali si prevede un rinnovo automatico delle concessioni balneari (o una proroga ex lege delle stesse), non possono essere considerate come fonti legali di un ipotizzato provvedimento amministrativo tacito, ma si sono limitate ad incidere, ex lege, sugli effetti giuridici di provvedimenti amministrativi già emanati, senza la necessità che l’amministrazione eserciti alcun potere e senza alcuna possibilità, pertanto, di configurare la sussistenza di un provvedimento tacito di rinnovo o di proroga che, se emesso, ha natura meramente ricognitiva delle conseguenze previste dalla legge (conseguenze che si producono, qualora siano compatibili col diritto europeo)”.

Ora però occorre qualificare la patologia degli atti successivamente adottati dal Comune di Santa Margherita Ligure, rispetto alla proroga della concessione nel 2009, in adempimento delle disposizioni di proroga ex lege intervenute nel tempo e successive, anche, alla pubblicazione della sentenza che è qui oggetto di ottemperanza ed evidentemente in contrasto con le norme eurounitarie di settore, per quanto si è sopra detto.

Conseguentemente il Comune di *** avrebbe adottato provvedimenti, in adempimento delle norme succedutesi nel tempo che hanno previsto la proroga automatica delle concessioni, che debbono considerarsi tamquam non essent – e quindi nulli – per essere stati adottati in assenza di potere ai sensi dell’art. 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 2418 (ipotesi che non è stata esclusa in giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 2011 n. 1983).

E’ noto il contrasto, soprattutto dottrinale, tra coloro che ritengono affetto da nullità il provvedimento amministrativo contrastante con il diritto eurounitario e coloro che ritengono un siffatto atto illegittimo e quindi impugnabile doverosamente entro il termine decadenziale dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che, dunque, in assenza di impugnazione e di annullamento da parte del giudice amministrativo, il provvedimento amministrativo adottato in applicazione di una norma di legge nazionale contrastante con il diritto eurounitario mantiene la sua naturale validità ed efficacia.

A tal proposito va ancora rammentato che la non applicazione della disposizione interna contrastante con l’ordinamento comunitario costituisce un potere-dovere, per il giudice, che opera anche d’ufficio (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018 n. 1219 e, prima ancora, Corte Casss., 18 novembre 1995 n. 11934), al fine di assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie, aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri. Infatti la pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia crea l’obbligo del giudice nazionale di uniformarsi ad essa e l’eventuale violazione di tale obbligo vizierebbe la sentenza secondo la disciplina dell’ordinamento interno e, al contempo, darebbe luogo a una procedura di infrazione nei confronti dello stato di cui quel giudice è organo (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 3 maggio 2019 n. 2890).

Tale dovere sussiste indipendentemente dal fattore temporale e quindi dalla mera circostanza che la norma interna confliggente sia precedente o successiva a quella comunitaria (cfr. Corte giust. 9 marzo 1978, causa 106/77).

Allo stesso modo, le statuizioni della Corte di Giustizia, le quali chiariscono il significato e la portata di una norma del diritto dell’Unione, possono e devono essere applicate anche a casi diversi rispetto a quelli oggetto del rinvio, aventi le stesse caratteristiche di quello che ha dato origine alla decisione della Corte (cfr. Corte Cost., ord. 23 giugno 1999 n. 255 e 23 aprile 1985 n. 113; Cass., Sez. I, 28 marzo 1997 n. 2787).

Occorre poi rammentare, in particolare con riferimento al caso qui in esame, che è ormai principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la disapplicazione (rectius, non applicazione) della norma nazionale confliggente con il diritto eurounitario, a maggior ragione se tale contrasto è stato accertato dalla Corte di giustizia UE, costituisca un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l’apparato amministrativo e per i suoi funzionari, qualora sia chiamato ad applicare la norma interna contrastante con il diritto eurounitario (cfr., pressoché in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2006 n. 3072, ma a partire da Corte costituzionale 21 aprile 1989 n. 232, e in sede europea da Corte di Giustizia della Comunità europea, 22 giugno 1989, C- 103/88 Fratelli Costanzo, nonché Corte di Giustizia dell’Unione europea 24 maggio 2012, C-97/11 Amia).

Qualora, pertanto, emerga contrasto tra la norma primaria nazionale o regionale e i principi del diritto eurounitario, è fatto obbligo al dirigente che adotta il provvedimento sulla base della norma nazionale (o regionale) di non applicarla (in contrasto con la norma eurounitaria di riferimento), salvo valutare la possibilità di trarre dall’ordinamento sovranazionale una disposizione con efficacia diretta idonea a porre la disciplina della fattispecie concreta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2018 n. 1342).

15. – Fermo tutto quanto si è fin qui illustrato il Collegio deve farsi carico di rammentare che la tesi prevalente in giurisprudenza, allo stato e condivisa dal Collegio, tende ad affermare che il provvedimento amministrativo adottato dall’amministrazione in applicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario non va considerato nullo, ai sensi dell’art. 21-septies l. 241/1990 per difetto assoluto di attribuzione di potere in capo all’amministrazione procedente, sebbene alla medesima amministrazione, per quanto si è sopra riferito, è fatto carico dell’obbligo di non applicare la norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario, in particolar modo quando tale contrasto sia stato sancito in una sentenza della Corte di giustizia UE.

Per effetto di tale prevalente orientamento, quindi, la violazione del diritto eurounitario implica solo un vizio di illegittimità non diverso da quello che discende dal contrasto dell’atto amministrativo con il diritto interno, sussistendo di conseguenza l’onere di impugnare il provvedimento contrastante con il diritto europeo dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena l’inoppugnabilità del provvedimento medesimo (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. III, 8 settembre 2014 n. 4538).

Tale puntualizzazione assume maggiore rilievo proprio nel caso di specie.

Infatti, nella presente sede, si è al cospetto del ricorso per l’ottemperanza della sentenza della Sezione n. 525/2013 nella quale appare evidente che il Collegio abbia fatto propria la tesi della doverosa impugnabilità degli atti di concessione sebbene adottati sulla scorta di una norma nazionale contrastante con il diritto comunitario.

Al punto 07 della sentenza della quale qui si chiede la corretta esecuzione si legge testualmente che “Quanto alla concessione n. 67/2003, successivamente rilasciata all’American Bar Capo Nord s.a.s. e depositata dal Comune agli atti del giudizio di primo grado, la stessa, oltre a potere ancora essere impugnata quando il primo giudice ha deciso, è stata effettivamente impugnata dalla Montanino s.r.l. con un nuovo ricorso”.

Non avendo la sentenza 525/2013 inciso sugli atti di concessione, essendosi limitata ad annullare i due atti attraverso i quali il Comune di Santa Margherita Ligure aveva respinto le richieste della società Montanino volte a sollecitare il predetto comune a bandire una selezione per l’affidamento della concessione demaniale nell’area di interesse, ciò vuol dire che il giudicato del quale si chiede qui l’ottemperanza non ha coinvolto gli atti concessori nel tempo rilasciati dal ridetto comune, che invece sono stati fatti oggetto di autonomi ricorsi giurisdizionali. Ne consegue che non rientra nell’alveo del potere di questo giudice dell’ottemperanza incidere sugli atti concessori rilasciati dal Comune di Santa Margherita Ligure, fuoriuscendo gli stessi – a maggior ragione quelli adottati successivamente alla pubblicazione dell’ottemperanda sentenza – dall’ambito del giudizio di esecuzione.

Il testo integrale della sentenza lo trovate qui:

https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?nodeRef=&schema=cds&nrg=201804296&nomeFile=201907874_11.html&subDir=Provvedimenti

IL RISPETTO DEL PRINCIPIO DELLA ROTAZIONE DEVE AVVENIRE GIA’ NELLA FASE DI INVITO DEGLI OPERATORI ALLE PROCEDURE DI GARA

Un particolare dell’interno di Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato

Dopo molte sentenze dei TAR ecco una pronuncia del Consiglio di Stato (Sezione V – n.n. 7538/2019) sul noto principio della rotazione negli affidamenti di forniture di beni e di servizi.

Sempre più spesso si deve rilevare che taluni uffici degli enti locali dimenticano di rispettare l’art. 36 del D.lgs 50/2016 provvedendo ad invitare alle procedure per l’affidamento dei servizi le stesse ditte che avevano svolto il servizio in precedenza, addirittura in alcuni casi si procede addirittura con l’affidamento diretto senza neanche dare conto delle modalità della verifica della congruità del prezzo.

Secondo il Collegio il rispetto del principio della rotazione deve avvenire già nella fase dell’invito degli operatori alla procedura di gara

 L’art. 36, comma 1, D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 impone espressamente alle stazioni appaltanti nell’affidamento dei contratti d’appalto sotto soglia il rispetto del “principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti”.

Secondo il Collegio detto principio costituisce necessario contrappeso alla notevole discrezionalità riconosciuta all’amministrazione nel decidere gli operatori economici da invitare in caso di procedura negoziata (Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2019, n. 6160 in cui, trattando proprio delle procedure negoziate previste dall’art. 36 cit. per gli appalti sotto soglia, è stato affermato: “Contrasta con il favor partecipationis la regola che il numero degli operatori economici sia limitato e fa temere per il principio di parità di trattamento che la loro scelta sia rimessa all’amministrazione e tuttavia, il sacrificio della massima partecipazione che deriva dal consentire la presentazione dell’offerta ai soli operatori economici invitati è necessitato dall’esigenza di celerità, essa, poi, non irragionevole in procedure sotto soglia comunitaria; quanto, invece, alla scelta dell’amministrazione il contrappeso è nel principio di rotazione”); esso ha l’obiettivo di evitare la formazione di rendite di posizione e persegue l’effettiva concorrenza, poiché consente la turnazione tra i diversi operatori nella realizzazione del servizio, consentendo all’amministrazione di cambiare per ottenere un miglior servizio (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 4 giugno 2019, n. 3755).

In questa ottica non è casuale la scelta del legislatore di imporre il rispetto del principio della rotazione già nella fase dell’invito degli operatori alla procedura di gara; lo scopo, infatti, è quello di evitare che il gestore uscente, forte della conoscenza della strutturazione del servizio da espletare acquisita nella precedente gestione, possa agevolmente prevalere sugli altri operatori economici pur se anch’essi chiamati dalla stazione appaltante a presentare offerta e, così, posti in competizione tra loro (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3943; V, 5 marzo 2019, n. 1524; V, 13 dicembre 2017, n. 5854).

5.2. Se è vero che l’art. 36, comma 7, d.lgs. n. 50 cit. rimette alle Linee guida A.N.A.C. di indicare specifiche modalità di rotazione degli inviti e che le Linee guida n. 4 nella versione adottata con delibera 1 marzo 2018 n. 206 prevedevano (al punto 3.6) che “La rotazione non si applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione”, non può tuttavia dubitarsi che tale prescrizione va intesa nel senso dell’inapplicabilità del principio di rotazione nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare l’operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti.

Diversamente opinando, stridente ed inconciliabile sarebbe il contrasto contenuto nel medesimo paragrafo delle citate Linee Guida laddove è precisato che “Il principio di rotazione comporta, di norma, il divieto di invito a procedure dirette all’assegnazione di un appalto, nei confronti del contraente uscente e dell’operatore economico invitato e non affidatario nel precedente affidamento”.

In conclusione deve ragionevolmente ammettersi che il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l’invito anche all’operatore uscente

Il mancato rispetto di questa disposizione può costituire una aggravante del comportamento dei responsabili degli uffici nel caso in cui si verificassero problemi nell’esecuzione del servizio.

Questi comportamenti dovrebbero essere tenuti in considerazione nella valutazione annuale della performance dei responsabili degli uffici.

LA UE MODIFICA LE SOGLIE DI RILEVANZA COMUNITARIA

La Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea  n. L279 del 31 ottobre 2019 pubblica i regolamenti 2019/18272019/18282019/18292019/1830, che rideterminano le soglie di rilevanza comunitaria di cui all’art. 35, commi 1 e 2 del D.lgs. 50/2016 per

Le nuove soglie sostituiranno integralmente le precedenti ed entreranno in vigore a partire dal 1° gennaio 2020; i nuovi valori sono i seguenti:

euro 5.350.000 per gli appalti pubblici di lavori e per le concessioni;

euro 139.000 per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati dalle amministrazioni aggiudicatrici che sono autorità governative centrali indicate nell’allegato III; se gli appalti pubblici di forniture sono aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici operanti nel settore della difesa, questa soglia si applica solo agli appalti concernenti i prodotti menzionati nell’allegato VIII;

euro 214.000 per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali; tale soglia si applica anche agli appalti pubblici di forniture aggiudicati dalle autorità governative centrali che operano nel settore della difesa, allorché tali appalti concernono prodotti non menzionati nell’allegato VIII;

euro 750.000 (resta inalterato l’odierno importo di 750.000 euro) per gli appalti di servizi sociali e di altri servizi specifici elencati all’allegato IX.

L’AUDIZIONE DEL PRESIDENTE DELL’UPB NELL’AMBITO DELL’ESAME DELLA LEGGE DI BILANCIO 2020

Il Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), Giuseppe Pisauro, è stato ascoltato il 12 novembre in audizione dalle Commissioni bilancio di Camera e Senato nell’ambito dell’esame preliminare della manovra economica per il triennio 2020-22.

Nel suo intervento il presidente Pisauro ha analizzato i contenuti della manovra – decreto 124/19 e DDL di bilancio – illustrando le valutazioni dell’UPB sul suo impianto complessivo e sugli andamenti delle principali grandezze di finanza pubblica, passando in rassegna i principali interventi ipotizzati e i loro effetti, sottolineandone aspetti condivisibili e elementi di criticità.

In estrema sintesi alcuni dei punti salienti evidenziati nel corso dell’audizione.

La crescita resta debole  Successivamente alla pubblicazione della NADEF gli indicatori congiunturali sono marginalmente migliorati, in un contesto economico che però resta debole. Come anticipato dall’UPB nella sua Nota sulla congiuntura di ottobre, nel terzo trimestre dell’anno il PIL è aumentato in termini congiunturali dello 0,1 per cento. La previsione, sulla base dei modelli di breve termine, dell’UPB indica per lo scorcio finale dell’anno una variazione del PIL appena positiva. Nel complesso del 2019 il PIL aumenterebbe dello 0,2 per cento, marginalmente al di sopra delle attese della NADEF 2019.

L’UPB ha effettuato un’analisi sugli effetti della manovra di bilancio sull’attività economica nel prossimo triennio. Secondo le simulazioni effettuate, la manovra di bilancio avrebbe un effetto espansivo sul PIL reale nel complesso del triennio 2020-22 di 0,3 punti percentuali, appena al di sotto di quello stimato dal MEF nel DPB (0,4 punti).

Le grandi cifre della manovra e la zavorra delle clausole – Dopo un deficit nel 2020 al livello degli ultimi due anni (2,2 per cento del PIL), la manovra prevede una riduzione del disavanzo pubblico programmatico a partire dal 2021. Il miglioramento previsto per il 2021 e il 2022 è peraltro unicamente attribuibile alla presenza di una parte ancora rilevante delle clausole di salvaguardia. Queste ultime vengono infatti disattivate solo per un terzo e un decimo e restano presenti nei conti per importi pari rispettivamente a 19 miliardi nel 2021 e a 25,8 miliardi nel 2022 (1,0 e all’1,3 per cento del PIL) senza che nessuna indicazione programmatica circa il loro trattamento futuro venga fornita nella NADEF o nel DPB. Senza il contributo delle clausole, il deficit – in un esercizio puramente meccanico – risulterebbe pari al 2,8 per cento del PIL nel 2021 e al 2,7 per cento nel 2022. Inoltre, sempre In termini puramente meccanici, le clausole garantirebbero oltre la metà della riduzione programmatica del rapporto debito PIL nel biennio 2021-22.

Un secondo aspetto problematico della manovra è relativo agli andamenti fortemente divergenti previsti per le spese e le entrate complessive. Al netto delle clausole di salvaguardia, le maggiori entrate nette – pari a 7,5 miliardi nel 2020 – si riducono progressivamente (a 5,3 e a 3,9 miliardi nel 2021 e nel 2022); le maggiori spese nette, molto inferiori nel primo anno (0,7 miliardi), crescono invece sensibilmente, raggiungendo gli 8,5 miliardi nel 2021 e gli 11,3 miliardi nel 2022, con una componente preponderante di quelle di natura corrente. La manovra determina spese nette di conto capitale negative nel 2020, positive di 2 e 4 miliardi nel biennio successivo, gli aumenti previsti nell’articolato vengono infatti limitati dalla riduzione di altri stanziamenti di bilancio.

Meno incertezze ma restano i rischi – Rispetto a quanto ipotizzato nella NADEF, la manovra fuga alcuni elementi di incertezza. In particolare, ridimensiona, rispetto agli originari 7 miliardi previsti per il 2020, l’apporto delle misure di contrasto all’evasione fiscale, ora oggetto di quantificazioni più prudenti e realistiche.

Le grandezze di finanza pubblica appaiono in ogni caso soggette a rischi e incertezze derivanti dall’andamento del quadro macroeconomico. Un forte peggioramento del contesto internazionale potrebbe influire negativamente sulla domanda estera rivolta al nostro Paese e quindi sulla crescita del PIL, che potrebbe risultare inferiore a quella dello scenario programmatico prospettato nella NADEF. Inoltre, sul fronte dei tassi di interesse, la situazione favorevole dovuta alla loro recente riduzione è soggetta a incertezza, con rischi sulla spesa per l’onere del servizio del debito.

Dal contrasto all’evasione agli incentivi ai pagamenti tracciabili – Nell’ambito della manovra risorse per 3 miliardi nel 2020, 3,7 nel 2021 e 3,5 nel 2022 provengono dalle misure di contrasto dell’evasione fiscale e di incentivo all’utilizzo di mezzi di pagamento tracciabili introdotte con il decreto fiscale. Queste misure appaiono condivisibili dal punto di vista del merito e la loro valutazione finanziaria risulta sufficientemente prudenziale. A queste norme si aggiungono gli interventi, sempre finalizzati al contrasto dell’evasione, previsti nel DDL di bilancio.

Le misure, che non includono forme di condono fiscale, possono essere suddivise in quattro diverse tipologie le quali rispondono a quattro finalità differenti: 1) contrastare frodi in materia di IVA e accisa in ambiti specifici; 2) ostacolare le indebite compensazioni di imposta; 3) ampliare e a rendere più tempestive le informazioni a disposizione dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza; 4) incentivare l’uso di forme di pagamento alternative al contante.

Tra le nuove misure previste rientra la norma del DDL di bilancio che prevede la possibilità per l’Agenzia delle entrate di integrare, previa pseudonimizzazione dei dati personali, le banche dati di cui già dispone con i dati dell’archivio dei rapporti finanziari per definire profili di rischio utili a far emergere posizioni da sottoporre a controllo o per incentivare l’adempimento spontaneo del contribuente. La portata innovativa della norma, risiede nella possibilità per l’Agenzia delle entrate di passare da logiche deduttive a logiche induttive nella propria attività di controllo, grazie al trattamento automatico di grandi masse di dati a monte della determinazione dei criteri di rischio. L’efficacia della norma, dipende tuttavia in modo cruciale: 1) dalla capacità dell’Agenzia di sfruttare il potenziale informativo che avrà a disposizione e cioè di poter disporre delle adeguate competenze statistico-informatiche e di risorse umane professionalmente idonee a questo scopo; 2) dall’effettivo superamento delle problematiche connesse con il trattamento dei dati personali. In merito a quest’ultimo aspetto la norma del DDL di bilancio prevede l’inclusione dell’attività di prevenzione e contrasto dell’evasione fiscale tra quelle per le quali è prevista la limitazione dei diritti dell’interessato con riferimento ai dati utilizzati. Andrebbe approfondito se la norma così come proposta nel DDL di bilancio sia effettivamente sufficiente a consentire la limitazione dei diritti, ossia se siano previsti tutti gli elementi necessari richiesti dall’articolo 23 del Regolamento generale sulla protezione dei dati.

Quanto alle misure per favorire il ricorso a pagamenti tracciabili, tutti gli strumenti che ampliano la disponibilità di informazioni e ne aumentano la tempestività, possono contribuire a migliorare la capacità di analisi e di controllo preventivo dell’Amministrazione e accrescere l’adempimento spontaneo. Le misure previste potrebbero tuttavia incentivare forme di evasione con consenso (quelle in cui esiste un accordo tra acquirente e venditore), ampliando anziché riducendo l’evasione nelle cessioni con il consumatore finale. Questo tipo di evasione, sicuramente più difficile da contrastare, non è ancora stata affrontata con determinazione.

In presenza di un’emersione dei costi favorita dall’obbligatorietà della fatturazione elettronica e della trasmissione telematica dei corrispettivi, l’aumento dell’evasione con consenso potrebbe portare anche a una perdita di gettito. Questo fenomeno andrebbe contrastato dalla previsione di adeguati controlli sulla stabilità e credibilità dei margini di ricavo.

Le misure sulla tassazione delle imprese. – La manovra di bilancio determina complessivamente, in termini di cassa, un maggiore prelievo nel 2020 sulle società di capitali pari a 1,9 miliardi; negli anni successivi, gli effetti delle diverse misure sostanzialmente si compensano e dal 2023 producono una riduzione del gettito di 1,2 miliardi. In generale, si ripropone uno schema di intervento simile a quello utilizzato negli ultimi anni: il maggiore gettito del primo anno è determinato da misure di natura straordinaria; vengono prorogati ed estesi a sostegno delle imprese gli incentivi agli investimenti (super e iper ammortamento e il credito d’imposta); infine, per la terza volta in un anno, viene modificato il regime di tassazione Ires. Infatti, il DDL di bilancio reintroduce dal 2019 il regime ACE e contestualmente prevede l’abrogazione dell’aliquota agevolata per la quota di utili di esercizio accantonata a riserva disponibile introdotta con il DL 34/2019. Sebbene la normativa per il 2019 sia stata modificata per tre volte, sul piano sostanziale il regime dell’ACE rimane in vigore senza soluzione di continuità. L’unica differenza è che l’aliquota nozionale utilizzata per quantificare il rendimento figurativo viene ridotta dall’1,5 all’1,3 per cento

L’UPB, utilizzando il proprio modello di microsimulazione, ha quantificato gli effetti redistributivi sia sulle società non finanziarie sia su quelle finanziarie delle modifiche apportate al regime Ires e della proroga del super e dell’iper ammortamento. Dalle simulazioni emerge che nel 2020 il complesso delle società non finanziarie registrerebbe un aggravio di imposta pari allo 0,7 per cento del prelievo. In particolare, l’aggravio derivante dall’abolizione dell’aliquota agevolata, amplificato dalla riduzione della aliquota nozionale dell’ACE, è solo in parte compensato dai benefici della proroga del super e dell’iper ammortamento. Saranno le società non finanziarie medio-grandi a subire l’aggravio maggiore (intorno all’1,3 per cento del gettito), nonostante siano quelle che ricevono anche maggiori benefici dalla proroga del super e dell’iper ammortamento (tra lo 0,6 e lo 0,8 per cento del gettito). Simmetricamente, le società di minori dimensioni godono del beneficio maggiore (tra lo 0,4 e l’1,4 per cento del gettito) essenzialmente per effetto dell’impatto positivo dell’ACE (dell’ordine del 3-4 per cento del gettito). Infine, le società del settore finanziario, che sono escluse dal regime agevolato sugli utili non distribuiti, beneficiano integralmente della reintroduzione dell’ACE sebbene mitigata dalla minore aliquota nozionale sul capitale (6,7 per cento del gettito).

La stretta sul regime sostitutivo per le partite IVA – Il DDL di bilancio introduce alcune modifiche ai regimi sostitutivi previsti per le imprese individuali e i lavoratori autonomi dalla legge di bilancio per il 2019. Da un lato, abroga il regime sostitutivo per i lavoratori autonomi e le imprese individuali con ricavi compresi tra 65.000 e 100.000 euro che sarebbe entrato in vigore dal 2020; dall’altro introduce alcuni limiti miranti a ridurre i margini per comportamenti elusivi con riferimento al regime forfettario previsto per lavoratori autonomi e le imprese individuali con ricavi inferiori a 65.000 euro. Nonostante gli interventi adottati, resta molto ampio, a parità di reddito, il differenziale fiscale tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. Persiste inoltre il contrasto con lo spirito originario sottostante l’introduzione dei primi regimi forfettari, che puntava a semplificare la gestione amministrativa e a ridurre il carico fiscale esclusivamente per le micro imprese.

Misure sulle tax expenditures. – Le spese fiscali sono da tempo oggetto di particolare attenzione sia nella legislazione (iniziative di analisi e monitoraggio al fine di un loro riassetto e una loro razionalizzazione) sia nel dibattito politico (come possibile fonte di copertura finanziaria di nuovi provvedimenti). Come nelle manovre di bilancio degli scorsi anni, anche nella manovra per il triennio 2020-22 non vi è traccia di un riassetto o di una razionalizzazione delle spese fiscali. Al contrario, la manovra prevede il rinnovo mediante proroga di diverse spese fiscali (si pensi, a titolo esemplificativo, a quelle sulle ristrutturazioni edilizie e sulla riqualificazione energetica), aumenta l’entità di certe altre rispetto alla legislazione vigente (ad esempio nel caso della cedolare secca agevolata sulla locazione nei comuni ad alta densità abitativa), ne introduce di nuove (come nel caso del bonus facciate). La manovra contiene tuttavia un timido e iniziale tentativo di ridurre le spese fiscali connesse con l’Irpef limitando le detrazioni di alcune spese al 19 per cento oltre un certo livello di reddito con effetti di recupero di gettito limitatissimi.

Cedolare secca sugli affitti a canone concordato. –  Il DDL di bilancio rende permanente la misura dell’aliquota della cedolare secca sugli affitti a canone concordato nei Comuni ad alta densità abitativa e nei capoluoghi di provincia e nei comuni limitrofi.

Il numero di contribuenti con reddito sottoposto a cedolare secca (sia quella ordinaria sia quella agevolata) è progressivamente aumentato nel tempo con una dinamica che mostra segni di rallentamento, ma che non sembra ancora essersi esaurita. Dalle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2018 emerge che nei comuni ad alta tensione abitativa la quota dei contribuenti con cedolare ad aliquota ridotta sul totale dei contribuenti con cedolare secca è pari al 38,3 per cento. L’incidenza maggiore dell’agevolazione si riscontra nel Nord-Est (e, in particolare, nei comuni dell’Emilia-Romagna), in cui i contratti a canone concordato sono più della metà del totale. L’incidenza più bassa si osserva nel Nord-Ovest e nel Sud e in generale nei comuni non capoluogo, mentre tra i comuni capoluogo l’agevolazione sembra generalmente meno diffusa nei capoluoghi di regione, specialmente al Sud.

Il ricorso alla cedolare secca (sia ordinaria sia agevolata) è stato prevalentemente ad appannaggio dei contribuenti a reddito più elevato: oltre la metà dell’imponibile della cedolare secca infatti è percepito dal 10 per cento dei contribuenti più ricchi. La cedolare secca potrebbe risultare tuttavia meno regressiva qualora parte del risparmio di imposta si fosse riversato sui canoni di locazione come sembrerebbe apparire da alcune analisi preliminari.

Limitazione delle detrazioni Irpef al 19 per cento. – Si prevede la non detraibilità di tali spese per i contribuenti con reddito complessivo superiore a 240.000 euro e una detraibilità soltanto parziale – secondo un coefficiente che decresce linearmente rispetto al reddito – per i contribuenti con reddito tra i 120.000 e i 240.000 euro.

Per il complesso dei contribuenti le spese interessate dalla misura (ossia gli importi sui quali calcolare la detrazione del 19 per cento) ammontano a 23,5 miliardi; a queste corrispondono detrazioni (risparmi di imposta) di circa 4,5 miliardi, l’11,4 per cento del totale delle tax expenditures relative all’Irpef pari a 39,3 miliardi.

Il criterio di selettività adottato dalla norma coinvolge una platea di contribuenti a reddito elevato estremamente ridotta da cui consegue che l’intervento finisce per non incidere significativamente sull’entità complessiva delle detrazioni. Infatti, i soggetti con reddito superiore a 240.000 euro costituiscono soltanto lo 0,1 per cento del totale dei contribuenti, mentre quelli con reddito compreso tra 120.000 e 240.000 euro sono appena lo 0,6 per cento. Ne deriva che la quota complessiva delle detrazioni coinvolte nella riforma ammonta a solo il 2,9 per cento del totale e ciò nonostante che la quota di contribuenti in queste fasce di reddito che usufruiscono delle detrazioni sia quasi doppia rispetto a quella per redditi inferiori a 120.000 euro (oltre 80 per cento, contro il 48) e che l’importo medio della detrazione sia molto più elevato (doppio se non triplo rispetto a quello dei contribuenti con reddito inferiore a 120.000 euro).

Le misure per le famiglie – Il DDL di bilancio prevede diverse misure a sostegno delle famiglie, alcune delle quali di carattere temporaneo, altre di carattere strutturale, per un effetto complessivo di maggiore spesa corrente di 612,2 milioni per il 2020, 1.044 milioni per il 2021 e 1.244 milioni per il 2022.

Tra le misure temporanee rientrano la proroga e il potenziamento di due misure legate alle nascite, ovvero il bonus bebè e il congedo parentale obbligatorio per i padri. Tra le misure di carattere strutturale si figurano l’istituzione di un Fondo per l’assegno universale e i servizi alle famiglie nonché l’incremento per le famiglie con basso ISEE del contributo per il pagamento delle rette degli asili nido pubblici e privati. Indirettamente volto a sostenere le famiglie è anche lo stanziamento in conto capitale in favore dei Comuni destinato alla costruzione, ristrutturazione o messa in sicurezza degli asili nido. Va sottolineata la necessità di un adeguato coordinamento tra le politiche a sostegno della domanda e dell’offerta pubblica di asili nido, attraverso adeguate misure per ridurre i divari territoriali nella disponibilità di asili nido pubblici, al fine di evitare la concentrazione di un duplice beneficio, sia dal lato dell’offerta sia dal lato della domanda, a favore dei cittadini residenti nei territori coperti dal servizio a scapito di quelli residenti nei territori che ne sono sprovvisti.

Le risorse per gli investimenti e la “clausola del 34 per cento” per il Mezzogiorno – La manovra prevede una serie di interventi relativi alla spesa per investimenti e contributi agli investimenti, che riguardano anche gli stanziamenti relativi all’anno in corso. Complessivamente, in termini di indebitamento netto delle AP le risorse destinate a tali finalità vengono ridotte per oltre 500 milioni nel 2019 e per oltre 1,1 miliardi nel 2020, mentre vengono incrementate nel 2021 e 2022, rispettivamente di circa 0,9 e 2,7 miliardi.

Per il 2020 si prevede inoltre, a garanzia per le regioni del Mezzogiorno e al fine di ridurre i divari territoriali, il rafforzamento della clausola di ripartizione in base alla popolazione delle risorse perla spesa ordinaria in conto capitale, passando dalla sola logica ex post al rispetto del principio del riequilibrio territoriale già in sede di riparto delle risorse. Tuttavia, l’esclusione dal perimetro applicativo della regola del 34 per cento degli stanziamenti previsti da leggi che fanno riferimento a “criteri o indicatori di attribuzione già individuati”, potrebbe, di fatto, ridurre l’efficacia della norma rispetto agli obiettivi dichiarati.