DIFFERITO AL 30 APRILE IL TERMINE PER L’APPROVAZIONE DEL BILANCIO DI PREVISIONE DEGLI ENTI LOCALI

Il ministero dell’interno ha dato notizia che è stato spostato ulteriormente al 30 aprile il termine per l’approvazione del bilancio di previsione 2020/2022 da parte degli enti locali.

Il decreto relativo del ministro dell’Interno è in corso di pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

Il nuovo differimento del termine dal 31 marzo al 30 aprile ha ricevuto, nella seduta di ieri, il parere favorevole della Conferenza Stato-città e autonomie locali.

IL MONITORAGGIO CONOSCITIVO SULLA “ESPERIENZA DELLA TRASPARENZA” SVOLTO DALL’ANAC.

Nell’ambito del “Progetto sperimentale sulla trasparenza” il Consiglio dell’ANAC ha disposto la pubblicazione di un ampio report tratto da un questionario inviato ai Responsabili della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (e per conoscenza ai relativi OIV) di un campione di città capoluogo, città metropolitane, Università, Regioni e società partecipate dai Ministeri.

Obiettivo del monitoraggio conoscitivo, e in senso più ampio del Progetto, è rilevare le modalità con cui si pone nella pratica la richiesta di trasparenza a sette anni dall’entrata in vigore del d.lgs. 33/2013 e quali potranno essere i suoi futuri sviluppi.

Il questionario è stato articolato in tre domande di carattere generale a risposta aperta e in alcune domande specifiche riportate in una tabella che riproduce l’attuale strutturazione della sezione “Amministrazione Trasparente” e la schematizzazione degli obblighi di pubblicazione di cui all’attuale Allegato 1 alla delibera ANAC n. 1310/2016.

L’alto tasso di partecipazione, pari a più dell’80 per cento delle amministrazioni contattate, e la qualità dei riscontri inviati dai RPCT, oltre a confermare l’importanza e la rilevanza di tali attori nel sistema della trasparenza amministrativa ha permesso di raccogliere molteplici considerazioni costruttive e proposte di miglioramento.

Il report documenta come, nella visione di “operatori qualificati” quali gli RPCT, le iniziative in materia di trasparenza (in particolare quelle relative agli obblighi di pubblicazione) sono gestite sempre più agevolmente dagli uffici, tanto da essere divenute ormai un aspetto centrale di ogni amministrazione pubblica meritevole di una specifica valorizzazione. Tale fattore costituisce un forte segnale di maturità nell’utilizzo delle politiche di trasparenza e di prevenzione della corruzione. Sulla base delle risposte ricevute va infatti segnalato in particolare come, nonostante il grande carico di lavoro necessario per adempiere agli obblighi di pubblicazione, vi sia una marcata consapevolezza dell’importanza dei contenuti pubblicati su “Amministrazione/Società Trasparente”: su una scala da 1 a 10, il campione selezionato ritiene che l’utilità verso l’esterno sia pari a 8, mentre le Università hanno dichiarato indici ancora più alti.

L’utilizzo quotidiano di tali strumenti nella vita delle amministrazioni pubbliche ne dimostra il radicamento nel substrato culturale dei funzionari pubblici e nelle modalità con cui i cittadini si rapportano alle istituzioni pubbliche.

Qui trovate il link sul monitoraggio dell’esperienza della trasparenza:

Tra breve ci sarà l’annuale settimana della trasparenza e sarà interessante verificare cosa è stato fatto dalle amministrazioni pubbliche.

http://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Pubblicazioni/AnticorruzioneTrasparenza/Report%20questionario%20RPCT%20DEF%2020_02_2020%20CLEAN2.pdf

L’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO SANCISCE LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE DELLE ASSOCIAZIONI RAPPRESENTATIVE DI UTENTI O CONSUMATORI

Consiglio di stato: Biblioteca

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con una decisione pubblicata il 20 febbraio, n. 7 ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.

Le argomentazioni seguite dall’Adunanza Plenaria sono state le seguenti:

1.Giunge all’esame dell’Adunanza Plenaria la seguente generale questione: se alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore.

1.1. Essa, come accennato nell’esposizione in fatto, insorge nell’ambito di una controversia che concerne i provvedimenti con i quali la Banca d’Italia ha disposto la risoluzione degli istituti di credito a causa del ritenuto stato di dissesto in cui essi si trovavano, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 180/2015, e adottato i provvedimenti conseguenziali. Il contenzioso si riferisce dunque al settore bancario e l’interesse azionato riguarda l’ambito della tutela dei consumatori.

1.2. L’associazione dei ricorrenti (Codacons) risulta bensì iscritta nello speciale elenco delle associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n.206, ma la questione della sua legittimazione si pone in quanto il predetto codice non prevede espressamente che le associazioni in questione siano abilitate ad esperire azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo. In altri termini, argomentando dalla mancata espressa previsione, nell’ambito del codice del consumo, dell’azione di annullamento di provvedimenti amministrativi, e postulata la tassatività delle azioni esperibili dalle associazioni a tutela dei consumatori, tutte di pertinenza della giurisdizione ordinaria, si giunge a dubitare che le associazioni siano provviste di legittimazione generale in ordine alla tutela di interessi collettivi.

La questione – per come posta – può essere a ben vedere riguardata sotto il profilo della legittimazione, o della tipologia delle azioni esperibili: infatti, dal dato positivo della mancata previsione di un’azione (di annullamento in sede giurisdizionale amministrativa) si inferisce, in tesi, un’assenza di legittimazione, per così dire, in parte qua, ovvero, secondo il diverso angolo di visuale segnalato, e in positivo, una legittimazione limitata a proporre solo le azioni espressamente previste.

1.3. Tale ultima impostazione già di per sé suscita perplessità, in quanto la configurazione di una legittimazione selettivamente limitata quanto al diritto di azione appare come una situazione soggettiva monca, perché privata dell’ordinario diritto, di derivazione costituzionale, normalmente connesso alla titolarità di una situazione soggettiva.

2.Anche a non voler tener conto della considerazione appena fatta, peraltro, la questione della legittimazione all’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa va riportata nell’ambito generale della questione della legittimazione ad agire nel giudizio amministrativo delle associazioni a tutela degli interessi collettivi, qualunque sia il settore in cui abbia operato la pubblica amministrazione.

2.1. Com’è noto, la protezione degli interessi “diffusi”, ossia adesposti, non consentita in via teorica a causa della mancata sussistenza del requisito della differenziazione che tradizionalmente qualifica la posizione giuridica di interesse legittimo, è stata sin dagli anni ’70 assicurata attraverso il riconoscimento dell’esistenza di un interesse legittimo di natura collettiva imputabile ad un ente che, in forza del possesso di alcuni requisiti giurisprudenzialmente individuati (effettiva rappresentatività, finalità statutaria, stabilità e non occasionalità, in taluni casi collegamento con il territorio) diviene idoneo ad assumerne la titolarità (Cons. Stato, V, 9.3.1973, n. 253; Cass., S.U., 8.5.1978, n. 2207; Cons. Stato, A.P., 19.11.1979, n. 24).

2.2.Il riconoscimento legislativo degli interessi collettivi in materia ambientale e la conseguente legittimazione riconosciuta alle associazioni dall’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) – norma che consente alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 (ossia quelle ricomprese in un elenco approvato con decreto del Ministro dell’Ambiente) di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi” – ha poi generato un dibattito circa l’esclusività di tale legittimazione.

2.3. In relazione a tale aspetto, è ben noto l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 13 della legge 349/86 non determina un rigido automatismo, potendo il giudice, all’esito di una verifica della concreta rappresentatività, ammettere all’esercizio dell’azione anche associazioni non iscritte, secondo il criterio del cd “doppio binario” che distingue tra la legittimazione ex lege delle associazioni di protezione ambientale di livello nazionale riconosciute (che non necessita di verifica) e la legittimazione delle altre associazioni (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760; sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554). Quest’ultima deve essere accertata in ciascuno dei casi concreti con riguardo alla sussistenza di tre presupposti: gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex plurimis, Cons. Stato., IV, 16.2.2010, n. 885).

3. L’esperienza e l’evoluzione ordinamentale hanno nel tempo mostrato l’esistenza di una serie di fattispecie di rilievo superindividuale che, sebbene nel dibattito siano state descritte come di interesse collettivo, assumono valenza specifica o addirittura si ascrivono ad altri ed eterogenei fenomeni quali quello degli interessi isomorfi, fortemente avvertito soprattutto nell’ambito della tutela civilistica dei consumatori. La varietà delle fattispecie ha impegnato la giurisprudenza in una considerevole attività di selezione e di differenziazione che non ha tuttavia alterato i profili fondamentali della questione relativa alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo.

4. Il fondamento teorico della cd. collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo della sua entificazione risiede, come già accennato, nella individuazione di interessi che sono riferibili ad una collettività o a una categoria più o meno ampia di soggetti (fruitori dell’ambiente, consumatori, utenti, etc.) o in generale a una formazione sociale, senza alcuna differenziazione tra i singoli che quella collettività o categoria compongono, e ciò in ragione del carattere sociale e non esclusivo del godimento o dell’utilità che dal bene materiale o immateriale, a quell’interesse correlato, i singoli possono trarre (sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554, cit.).

4.1. E’ evidente da questa definizione, che il discrimen più complesso da stabilire sia, non quello sul versante dell’interesse legittimo individuale (caratterizzato dall’esclusività del godimento o dell’utilità riconoscibile in capo ai singoli) ma, piuttosto, sul diverso e più generale versante dell’interesse pubblico vero e proprio, la cui cura è rimessa, secondo la tradizionale impostazione, unicamente all’amministrazione sulla base del principio di legalità.

La circostanza che la cura dell’interesse pubblico generale (ad es. all’ambiente) sia rimessa all’amministrazione non toglie, tuttavia, che essa sia soggettivamente riferibile, sia pur indistintamente, a formazioni sociali, e che queste ultime, nella loro dimensione associata, rappresentino gli effettivi e finali fruitori del bene comune della cui cura trattasi. Le situazioni sono infatti diverse ed eterogenee: l’amministrazione ha il dovere di curare l’interesse pubblico e dunque gode di una situazione giuridica capace di incidere sulle collettività e sulle categorie (potestà); le associazioni rappresentative delle collettività o delle categorie invece incarnano l’interesse sostanziale, ne sono fruitrici, e dunque la situazione giuridica della quale sono titolari è quella propria dell’interesse legittimo, id est, quella pertinente alla sfera soggettiva dell’associazione, correlata a un potere pubblico, che, sul versante processuale, si pone in senso strumentale ad ottenere tutela in ordine a beni della vita, toccati dal potere riconosciuto all’amministrazione.

4.2. Del resto, che possano esservi situazioni soggettive di natura diffusa e collettiva è confermato dal legislatore, il quale, all’art. 2 del codice del consumo, espressamente prevede che “sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa”; o ancora, dallo Statuto delle imprese (l. 11 novembre 2011, n. 180) che all’art. 4, co. 2, riconosce alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi “lesivi di interessi diffusi”; finanche, e soprattutto, dalla legge generale sul procedimento amministrativo, la quale, all’art. 9 prevede che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.

5. Tale ricostruzione è stata da ultimo sottoposta a critica con dovizia di argomenti dalla Sezione VI, con sentenza del 21 luglio 2016 n.3303, la quale dubita, in radice, della tenuta attuale della tradizionale impostazione basata sulla collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo dell’associazionismo spontaneo.

5.1. Il primo argomento, di carattere sistematico, utilizzato, è teso a mettere in dubbio la persistente validità e attualità dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la quale si è ammessa la tutela degli interessi legittimi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, a prescindere da una specifica previsione di legge (tesi del doppio binario). Secondo tale impostazione, in una prima fase, a fronte di un ordinamento ancora non adeguato alle emergenti istanze di tutela degli interessi meta-individuali, il ruolo degli enti esponenziali è stato….determinante e meritorio, perché ha consentito a questi interessi di assumere una dimensione giuridica e di avere un centro soggettivo di riferimento. Successivamente, tuttavia, nel corso del tempo l’esigenza di supplire alla carenza di un sistema istituzionale di tutela si è via via attenuata, perché il legislatore ha progressivamente preso atto dei cambiamenti in corso e ha iniziato a prevedere – introducendole per legge – forme e modalità specifiche di tutela. Si è avuta così la progressiva istituzionalizzazione di quella tutela che prima, pretoriamente, era affidata, o lasciata, all’iniziativa dei gruppi e delle associazioni private.

Sempre più spesso, quindi, la legittimazione ad agire degli enti esponenziali trova espresso riconoscimento in una puntuale disciplina normativa, che si preoccupa però anche di stabilire chi può agire e, soprattutto, il tipo di azione che può essere esercitata. Si riscontra, in sostanza, l’affermazione di una nuova e più matura “tassatività” delle azioni esperibili (sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo) nei predetti ambiti”.

5.2. Come può evincersi dalla parte finale del riportato brano della sentenza, la tesi sostenuta fonde, in un’unica considerazione, legittimazione ad agire e tipologia delle azioni esperibili, per limitarne il riconoscimento in capo ai soggetti, e limitatamente agli oggetti, specificamente previsti per legge.

L’Adunanza plenaria non condivide una siffatta lettura interpretativa della descritta evoluzione e ritiene che il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela.

5.2.1. Tralasciando per il momento la materia consumeristica, il legislatore è infatti intervenuto dopo oltre un decennio dall’emersione giurisprudenziale degli interessi collettivi a mezzo dell’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), istitutiva del Ministero dell’Ambiente, consentendo alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”, e così dando veste positiva ad un fenomeno che, come si è detto, scinde la titolarità della funzione di cura dell’ambiente imputata al neo costituito Ministero dell’Ambiente dalla titolarità dell’interesse sostanziale collettivo, invece riconosciuto alle associazioni, quali organismi rappresentativi dei fruitori ultimi.

A questa ipotesi, speciale ratione materiae, si aggiunge la previsione generale di cui all’art. 4, co. 2, l. 11 novembre 2011, n. 180, che riconosce alle associazioni di imprenditori maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi lesivi di interessi diffusi.

5.2.2. Questi interventi normativi non devono essere letti nel senso di previsioni che scindono, in via straordinaria, la legittimazione, dalla lesione di una situazione giuridica, ma quale emersione positiva dell’esigenza di protezione giuridica di interessi diffusi, secondo lo schema già delineato in via generale dalla giurisprudenza, e in linea con il ruolo che l’art. 2 Cost. assegna alle formazioni sociali, oltre che con la più attenta ed evoluta impostazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost..

5.2.3. Ma ciò che forse è ancora più significativo è il silenzio del legislatore sul generale tema della tutela degli interessi collettivi, che testimonia più di ogni altro elemento, soprattutto in epoca di iperproduzione legislativa come quella attuale, la stabilità e la profonda condivisione di un orientamento che da ormai un cinquantennio caratterizza l’approccio giurisprudenziale, e che è del tutto incompatibile con l’affermazione di un opposto principio di tipizzazione ex lege, soggettiva o oggettiva, della legittimazione a ricorrere o delle azioni esperibili, in controtendenza con l’orientamento “storico” della giurisdizione amministrativa di selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, e perciò necessariamente tutelabili, nel confronto dinamico con il potere pubblico.

6. Il secondo argomento critico, utilizzato al fine di trarre indizi in relazione al preteso affermarsi di un principio di necessaria tipizzazione della legittimazione straordinaria delle associazioni, è ricavato da una norma processuale impeditiva, sostanziantesi nel generale divieto di sostituzione processuale sancito dall’art. 81 del Codice di procedura civile: a mente del quale “fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.

È ben vero” – secondo l’impostazione in commento – “che uno dei risultati raggiunti attraverso la sopra richiamata teoria dell’interesse collettivo è stato quello di trasformare l’interesse diffuso dei singoli in interesse collettivo proprio dell’ente esponenziale; è altrettanto vero, tuttavia, che tale trasformazione sia stato il frutto di una fictio iuris, che non altera il connotato sostanziale del rapporto sottostante e non riesce, quindi, a superare il dato ontologico rappresentato dalla oggettiva alterità esistente tra la effettiva titolarità dell’interesse (il singolo) e il soggetto che lo fa valere (l’ente). Tale fictio iuris, pertanto, non può tradursi in una non consentita forma di legittimazione processuale straordinaria e generalizzata, priva di base legislativa (in contrasto con la regola sancita dall’art. 81 c.p.c.); giacché ogni affermazione di legittimazione ad agire, per avere fondamento, deve trovare in ogni singolo caso una base normativa positiva”.

6.1. L’interesse diffuso del quale si sta discorrendo è un interesse sostanziale che eccede la sfera dei singoli per assumere una connotazione condivisa e non esclusiva, quale interesse di “tutti” in relazione ad un bene dal cui godimento individuale nessuno può essere escluso, ed il cui godimento non esclude quello di tutti gli altri.

Ciò chiarito, l’interesse sostanziale del singolo, inteso quale componente individuale del più ampio interesse diffuso, non assurge ad una situazione sostanziale “personale” suscettibile di tutela giurisdizionale (non è cioè protetto da un diritto o un interesse legittimo) posto che l’ordinamento non può offrire protezione giuridica ad un interesse sostanziale individuale che non è in tutto o in parte esclusivo o suscettibile di appropriazione individuale.

6.2. E’ solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e che dunque si dota della protezione propria dell’interesse legittimo, sicché – per tornare alla critica mossa dall’orientamento giurisprudenziale citato, incentrata sull’asserita violazione dell’art. 81 cpc – seppur è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni. Non in forza di una fictio ma di un giudizio di individuazione e selezione degli interessi da proteggere, nonché della rigorosa verifica della rappresentatività del soggetto collettivo che ne promuove la tutela.

Sin qui la ricostruzione della tutela dell’interesse diffuso, da ritenersi ancora pienamente attuale.

7. La concreta questione portata all’attenzione dell’Adunanza, riguarda, tuttavia, un caso concernente la tutela consumeristica che richiede ulteriori approfondimenti in considerazione della sussistenza di peculiari norme di settore.

Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, 21 luglio 2016 n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento.

L’art. 32-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che: “Le associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”.

Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe – secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata – che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.)

Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento.

7.1. Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata. Ciò, non solo per le generali e dirimenti considerazioni di cui al § 1.2. ma anche per quanto ci si appresta ad argomentare.

7.2. Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo. Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori).

Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori.

Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto – quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato – che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori.

7.3. Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo.

La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico – ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità.

8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli articoli 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla L. 12/04/2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa.

Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità.

La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.

9. Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato:

Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.

10. Tanto chiarito in relazione al generale tema della tutela degli interessi diffusi e all’astratta ammissibilità dell’azione di annullamento introdotta dalle associazioni esponenziali, ritiene l’Adunanza di dover dare alla Sezione remittente ulteriori indicazioni utili a dirimere il caso di specie, in cui, quale nota peculiare, sembra esservi la compresenza di interessi individuali e collettivi.

Si è sin qui chiarito che, fermi i presupposti individuati nel tempo dalla giurisprudenza, nessun dubbio debba porsi in ordine alla legittimazione delle associazioni, quando siano presenti, nella situazione giuridica azionata, tutti i tratti salienti dell’interesse collettivo. In altri termini, la legittimazione, per sussistere, deve riferirsi a un interesse originariamente diffuso, e quindi adespota, che, attenendo a beni a fruizione collettiva, si “personalizza” in capo a un ente esponenziale, munito di dati caratteri, ponendosi per tale via come interesse legittimo proprio dell’ente (la qual cosa esclude la pertinenza del richiamo, per negare la legittimazione, alla sostituzione processuale di cui all’articolo 81, c.p.c.).

10.1. La situazione in esame è tuttavia peculiare poiché gli atti impugnati hanno verosimilmente provocato la lesioni di plurimi interessi legittimi individuali, e prova ne è che fra i ricorrenti vi sono anche numerosi risparmiatori.

Occorre dunque chiedersi se sia ravvisabile, a latere dell’interesse plurisoggettivo dei singoli risparmiatori (id est una sequenza di interessi legittimi di identico contenuto), anche un più ampio interesse collettivo proprio dell’associazione nei termini sino ad ora indicati, ossia una posizione giuridica derivante dalla diffusione nella comunità di meri interessi omogenei non individualmente protetti. Ovvero occorre, detto altrimenti, chiedersi se la sussistenza di interessi individualmente protetti, e quindi azionabili dagli interessati uti singuli, escluda di per sé la possibilità di una “personalizzazione” in capo all’ente di un interesse diffuso e la sua conseguente azionabilità quale interesse proprio di natura collettiva.

10.2. Il tema si pone in relazione alle deduzioni –contenute anche negli scritti di parte- concernenti il profilo dell’omogeneità degli interessi tutelati rispetto alla generalità dei consumatori rappresentati, interessi di cui l’ente esponenziale assume di farsi portatore, in modo da poter escludere qualsiasi contrasto “interno” tra i potenziali interessati.

In proposito questa Adunanza ritiene che quando vi sia compresenza di interessi collettivi in capo all’ente associativo e di interessi individuali concorrenti, autonomamente azionabili, sia necessario acclarare che l’ente non si sta affiancando alle posizioni individuali di più soggetti nella difesa di un interesse che resta individuale pur se plurisoggettivo –il che potrebbe al più sorreggere una legittimazione al mero intervento- ma sta facendo valere un interesse proprio, di natura collettiva nei termini dianzi evidenziati, che può coesistere con più posizioni individuali.

Tale accertamento non può che essere condotto alla luce dei seguenti punti fermi:

– l’interesse collettivo del quale si è occupata la giurisprudenza, sin qui considerata, è una “derivazione” dell’interesse diffuso per sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela” di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività (sul punto, Consiglio di Stato, Sez V, 12 marzo 2019, n. 1640).

– esso può considerarsi sussistente ove riferito a beni materiali o immateriali a fruizione collettiva e non esclusiva, tenendo comunque presente, in linea generale, che è pur possibile che un provvedimento amministrativo incida al contempo su interessi sia collettivi che individuali, ma che l’associazione è legittimata ad agire solo quando l’interesse collettivo possa dirsi effettivamente sussistente secondo la valutazione che ne fa il giudice;

– la diversità ontologica dell’interesse collettivo (ove accertato secondo il criterio sin qui rappresentato), rispetto all’interesse legittimo individuale, porta ad escludere, in radice, la necessità di un’indagine in termini di omogeneità (oltre che degli interessi diffusi dal quale quello collettivo promana, anche) degli interessi legittimi individuali eventualmente lesi dall’esercizio del potere contestato. Nel senso che se l’interesse collettivo c’è, si tratta di un interesse dell’ente e quindi diventa non pertinente in radice porsi anche il tema dell’omogeneità degli interessi legittimi individuali dei singoli (in tal senso, chiaramente, Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451).

E’ ben noto al Collegio quanto affermato da questa Adunanza plenaria con la decisione n. 9/2015, a mente della quale “E’, inoltre, indispensabile che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all’associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 27 aprile 2015, n.2150)”.

L’affermazione deve però essere rettamente intesa, in coerenza con quanto si qui detto, in guisa da evitare che in casi come quello di specie (in cui accanto agli interessi diffusi, coagulatisi nella loro dimensione collettiva in capo all’associazione, convivono interessi legittimi in senso proprio dei singoli) si finisca per porre a raffronto, in nome del requisito dell’omogeneità, gli interessi indistinti e diffusi nella comunità o categoria, con i plurimi interessi legittimi individuali, posto che, com’anzi detto, la tipologia e la natura degli interessi in questione restano ontologicamente distinti.

L’omogeneità dell’interesse diffuso nella comunità o categoria rappresentata è infatti requisito consunstanziale dell’interesse collettivo tutelato, inteso quale aggregazione di interessi diffusi oggettivamente assonanti secondo la valutazione che ne fa il giudicante; per converso, l’omogeneità non è requisito che debba riferirsi agli interessi legittimi individuali.

10.3. Trasferita sul piano pratico, l’affermazione può tradursi nel senso che non è affatto necessario che la tutela dell’interesse collettivo ridondi anche in un materiale ed effettivo vantaggio per tutti i singoli componenti della comunità o della categoria che, in relazione agli atti contestati, vantino un interesse individuale, concreto e qualificato.

Esemplificando, e con riferimento al caso di specie, se l’interesse collettivo incarnato dall’associazione è quello di tutelare i risparmiatori in presenza di vicende amministrative o normative che ne possano mettere in pericolo il relativo patrimonio, il requisito dell’omogeneità potrà escludersi solo se può ragionevolmente ipotizzarsi che nell’ambito della categoria rappresentata, vi possano essere risparmiatori presso i quali è diffuso un interesse opposto.

Sarebbe invece ultroneo verificare se, in concreto, tutti i singoli risparmiatori, nessuno escluso, siano stati effettivamente lesi nel patrimonio, o se piuttosto vi siano uno o più risparmiatori, controinteressati, che da quegli atti impugnati abbiano invece ritratto un vantaggio materiale, poiché così procedendo – se si aprisse cioè ad un’indagine circa la coerenza dell’interesse collettivo (oltre che rispetto all’interesse diffuso, anche) rispetto alle posizioni di interesse legittimo in ordine a “beni della vita” dei singoli – l’inevitabile risultato sarebbe quello di confondere i piani dell’interesse collettivo e della sua lesione con quello della lesione delle singole posizioni giuridiche di ciascuno dei componenti la comunità o la categoria.

IL PRESUPPOSTO DELL’ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO E’ CHE SIA STRUMENTALE ALLA TUTELA DI UN INTERESSE GENERALE

La quinta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 1121/2020 ha affrontato, ancora una volta il tema dell’accesso civico generalizzato stabilendo che il presupposto necessario perché sia ammissibile l’istanza di accesso civico generalizzato è che sia strumentale alla tutela di un interesse generale.

Il Collegio ha argomentato come segue:

In un primo tempo è stato introdotto l’accesso civico c.d. “semplice”, imperniato su obblighi di pubblicazione gravanti sulla pubblica amministrazione e sulla legittimazione di ogni cittadino a richiederne l’adempimento; quindi, l’accesso civico generalizzato, azionabile da chiunque senza previa dimostrazione della sussistenza di un interesse personale, concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza alcun onere di motivazione in tal senso della richiesta, allo scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale in rapporto alle finalità esplicitate dall’art. 5, comma 2 del d.lgs. n. 33 del 2013.

La diversità strutturale degli interessi giuridici presi in considerazione (e tutelati) non consente quindi una sovrapposizione tra e diverse figure di accesso, destinate ad operare in contesti e per finalità del tutto differenti.

Vi è, in primo luogo, una fondamentale differenza tra accesso documentale ed accesso “civico”, sia semplice che generalizzato: il primo consente infatti un’ostensione più approfondita, in ragione della sua strutturale correlazione con un interesse privato del richiedente (generalmente a fini difensivi).

L’accesso civico, invece, è funzionale ad un controllo diffuso del cittadino, al fine specifico, da un lato, di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa per l’ipotesi in cui non siano stati compiutamente rispettati gli obblighi al riguardo già posti all’amministrazione da una norma di legge, nonché – dall’altro – per operare un più incisivo e preventivo contrasto alla corruzione: in quanto tale consente sì una conoscenza potenzialmente più estesa rispetto a quella accordata dalla l. n. 241 del 1990 ai soggetti privati per la tutela dei propri interessi, ma d’altro canto meno approfondita, in quanto concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni, fermi però ed in ogni caso i limiti posti dalla legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in pericolo.

Limiti che, come si dirà più oltre, non sono caratterizzati dal principio della tassatività, operando piuttosto secondo categorie generali.

Espressiva di tale diversità è la constatazione che, mentre la legge n. 241 del 1990 esclude espressamente l’utilizzabilità del diritto di accesso anche ai fini di un controllo generale dell’azione amministrativa (essendo, quest’ultima, una finalità del tutto estranea alla tutela dell’interesse privato ed individuale che solo legittima e giustifica l’ostensione documentale), il diritto di accesso generalizzato è invece riconosciuto proprio “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. La trasparenza perseguita dall’istituto in esame altro non è infatti che lo strumento principale con cui può effettivamente assicurarsi un controllo diffuso del rispetto della legalità dell’azione amministrativa.

Diverse sono conseguentemente le tecniche di bilanciamento degli interessi contrapposti, che giustificano l’esclusione della possibilità di accesso: in particolare, per quanto riguarda l’accesso privato ai documenti amministrativi (ex lege n. 241 del 1990), il legislatore ha preventivamente individuato – in modo preciso – le categorie di atti ad esso sottratte (sia mediante espressa previsione di legge, sia rinviando a specifiche fonti regolamentari di attuazione e dettaglio); per contro, la disciplina dell’accesso generalizzato non reca prescrizioni puntuali, bensì individua delle categorie di interessi, pubblici (art. 5-bis, comma primo, d.lgs. n. 33 del 2013) e privati (art. 5-bis, comma 2) in presenza dei quali il diritto in questione può a priori essere negato (fermi comunque i casi di divieto assoluto, ex art. 5-bis, comma 3) e rinvia ad un atto amministrativo non vincolante (le linee-guida Anac) per ulteriormente precisare l’ambito operativo dei limiti e delle esclusioni dell’accesso civico generalizzato.

Diverse sono anche le conseguenze del mancato accesso, da un punto di vista processuale.

Nel caso di accesso tradizionale si forma il silenzio rigetto, una volta decorsi infruttuosamente 30 giorni dalla richiesta del privato interessato.

Nel caso dell’accesso civico, invece, sia nel caso di diniego parziale o totale che di mancata risposta allo scadere del termine per provvedere, non si forma alcun silenzio rigetto, ma l’istante può attivare una speciale tutela amministrativa interna innanzi al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, formulando istanza di riesame alla quale dovrà essere dato riscontro entro i termini di legge.

Sarà quindi onere, per l’interessato, contestare l’inerzia dell’amministrazione attivando lo specifico rito di cui all’art. 117 Cod. proc. amm. ovvero, in ipotesi di diniego espresso (anche sopravvenuto), il rito sull’accesso ex art. 116 Cod. proc. amm.

Alla luce del quadro normativo in materia, deve quindi concludersi che uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell’istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza, dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale.

Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari: al riguardo, il giudice amministrativo è tenuto a verificare in concreto l’effettività di ciò, a nulla rilevando – tantomeno in termini presuntivi – la circostanza che tali soggetti eventualmente auto-dichiarino di agire quali enti esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.

Deve pertanto concludersi che, sebbene il legislatore non chieda all’interessato di formalmente motivare la richiesta di accesso generalizzato, la stessa vada disattesa, ove non risulti in modo chiaro ed inequivoco l’esclusiva rispondenza di detta richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica, essendo del tutto estraneo al perimetro normativo della fattispecie la strumentalità (anche solo concorrente) ad un bisogno conoscitivo privato.

In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza.

Nel giudizio amministrativo la sussistenza dell’interesse e della legittimazione ad agire è infatti valutabile d’ufficio in qualunque momento del giudizio. La mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni dell’azione è rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (art. 35, comma primo, Cod. proc. amm.), poiché essi costituiscono i fattori ai quali la legge, per inderogabili ragioni di ordine pubblico, subordina l’esercizio dei poteri giurisdizionali (ex plurimis, Cons. Stato, IV, 28 settembre 2016, n. 4024)

In difetto dei presupposti di cui sopra sarà quindi preciso onere del soggetto interessato avvalersi –laddove ne sussistano i presupposti – della specifica tutela accordata dalle disposizioni di cui al Capo V della l. 7 agosto 1990, n. 241.

Tale conclusione risponde in primo luogo alla necessità di impedire sovrapposizioni tra le diverse (e tuttora vigenti) discipline legislative in materia di accesso, ma è altresì coerente con la specifica finalità dell’istituto ora in esame, consistente – come già detto – esclusivamente nel “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5, comma 2 d.lgs. n. 33 del 2013), laddove quest’ultimo inciso non rileva in termini puramente generali ed astratti (ossia quale dibattito su qualsiasi oggetto), ma è riferito ai due obiettivi sostanziali che lo precedono nel testo della norma (il che spiega anche la devoluzione proprio all’Autorità nazionale anticorruzione e non ad altri del compito di definire delle linee-guida recanti indicazioni operative in materia di esclusioni e limiti all’accesso).

Individuati nei termini che precedono i presupposti operativi dell’accesso generalizzato, vanno ora delineati i limiti concreti alla sua operatività in ragione di prestare una tutela a determinate categorie di interessi.

Al riguardo, l’art. 5-bis, comma primo del d.lgs n. 33 del 2013 prevede che l’accesso civico deve essere rifiutato “se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a:
a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico;
b) la sicurezza nazionale;
c) la difesa e le questioni militari;
d) le relazioni internazionali;
e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; […]
Il diritto di cui all’articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 […]”.

Il legislatore individua dunque, quale ostacolo all’esercizio dell’accesso generalizzato, una serie di interessi – di rilievo costituzionale – la cui tutela è imprescindibile per la funzionalità dell’apparato dello Stato, in quanto attenenti all’essenza stessa della sua sovranità (interna ed internazionale).

Ne consegue che il diniego eventualmente opposto all’istanza, presupponendo una valutazione eminentemente discrezionale che non di rado può involgere – ratione materiae – profili di insindacabile merito politico, non potrebbe in alcun modo essere superato da una parallela valutazione del giudice amministrativo, il cui sindacato in materia va strettamente circoscritto alle ipotesi di manifesta e macroscopica contraddittorietà o irragionevolezza.

Il giudice amministrativo può quindi sindacare le valutazioni dell’amministrazione in ordine al diniego opposto solamente sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, ma non procedere ad un’autonoma verifica della necessità del diniego opposto o della sua eventuale superabilità, sia pure parziale.

Una siffatta valutazione, infatti, verrebbe ad integrare un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione: tale sindacato rimane dunque limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto.

Alla luce dei rilievi che precedono, deve concludersi per la fondatezza dell’appello.

LA SPESA PRO CAPITE DEI COMUNI ITALIANI NEL 2018

il Sole24ore del 17 febbraio pubblica un interessante studio con la spesa pro capite dei comuni elaborato da “ContrattiPubblici.org,“, un progetto di Synapta che si occupa appunto di raccogliere i dati relativi alle spese della pubblica amministrazione. Numeri che l’azienda ha condiviso con Infodata, che ha realizzato questa mappa.

Il rosso più scuro indica una spesa superiore ai 5mila euro per residente.

Come si può notare dalla mappa, i comuni con una spesa pro capite più alta si concentrano in Valle d’Aosta, nella provincia autonoma di Bolzano, ma anche in Sardegna. Questo deriva dal fatto che i piccoli Comuni (considerati tali quelli con pochi abitanti hanno comunque una serie di spese fisse per la gestione delle missioni che sono le stesse dei comuni più grandi per cui può avvenire che la spesa pro capite sia più elevata.

I dati raccolti riguardano non solo la spesa corrente ma anche quella per investimenti per cui l’indicazione della quantità di soldi spesi non deve essere inteso come un indice negativo di qualità dell’attività di un’amministrazione comunale. Ridurre al minimo le spese e, soprattutto, gli investimenti potrebbe essere anch’esso un segnale negativo. Un valore elevato, specialmente in Comuni delle categorie minori può essere dovuto ad un importante opera pubblica.

Solamente una analisi ravvicinata dei dati può consentire di fare le valutazioni del caso.

Forse chi ha fatto il lavoro, comunque senza dubbio utile, avrebbe potuto separare la spesa per investimenti elaborando solo i dati della spesa corrente così sarebbe stato più facile fare una valutazione e un confronto tra i vari Comuni.

LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE BUSCEMA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO DELLA CORTE DEI CONTI HA TOCCATO ANCHE LA GESTIONE FINANZIARIA DEGLI ENTI LOCALI

Il 13 febbraio si è svolta come di consueto a Roma la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario alla presenza del presidente della repubblica Mattarella e delle maggiori autorità dello Stato.

Nella propria lunga e approfondita relazione il Presidente della Corte Buscema ha toccato anche la gestione finanziaria degli enti locali.

Con la relazione approvata con deliberazione n. 6/2019/FRG è stata fornita una rappresentazione d’insieme della finanza locale, sulla base dei dati di bilancio 2016-2017.

Ne emerge un recupero della flessibilità delle politiche allocative dovuta soprattutto all’allentamento dei vincoli di finanza pubblica. I risultati complessivi del comparto risultano conformi alle attese, con una più ridotta quota di enti che, nel biennio considerato, si trovano in situazione di disavanzo di competenza (12% nel 2016, 11% nel 2017). Ciò nonostante, dalle risultanze finali degli enti monitorati (n.4.987 totali) si registra un disavanzo complessivo che, in termini assoluti, ammonta a 1.927 milioni di euro nel 2016 e a 1.007 milioni di euro nel 2017; ciò in quanto le risultanze finali positive degli enti in avanzo sono di gran lunga inferiori al disavanzo prodotto da quelli numericamente inferiori.

Alla riduzione del numero di enti che chiudono in disavanzo fa riscontro un coerente quadro positivo degli equilibri correnti della gestione di competenza.
Infatti, i Comuni, nel 2017, chiudono con un complessivo saldo positivo di parte
corrente di circa 5 miliardi di euro, migliore rispetto ai 4 miliardi del 2016.

Tale andamento trova sostegno in un lieve incremento delle entrate correnti (1,69%) a fronte di una minima diminuzione della spesa corrente.

Nella valutazione degli equilibri, è di interesse osservare la movimentazione del Fondo pluriennale vincolato di parte capitale. Il saldo di tale posta contabile consente di ipotizzare, nel 2017, un migliore uso delle risorse accantonate nel fondo rispetto all’utilizzo fatto nel 2016. Tale saldo, nel 2017, ha un’incidenza negativa del 14% rispetto all’equilibrio di parte capitale, laddove nel 2016 tale posta incideva nella molto più consistente entità del 74%, a conferma di un più tempestivo ed appropriato utilizzo delle risorse.

Sul fronte degli investimenti, la dinamica della spesa si presenta ancora debole, anche a causa dell’elevato peso dello stock di debito delle amministrazioni locali.
Rispetto agli stanziamenti di bilancio, gli impegni di spesa in conto capitale si sono ridotti del 72% e il Fondo pluriennale vincolato si è incrementato del 18%. Lo stesso trend si riscontra nel confronto con l’esercizio precedente, dov’è accentuato il calo degli impegni per investimenti (-2,7 miliardi) mentre cresce il Fondo pluriennale vincolato in conto capitale che, al netto della quota finanziata da debito, raggiunge 6,5 miliardi (circa 663 milioni in più dell’anno precedente).

L’indagine sulla gestione dei residui evidenzia una accelerazione delle procedure di riscossione e di pagamento.

Resta ancora di rilievo il ricorso alle procedure di riequilibrio finanziario pluriennale, che risulta concentrato, prevalentemente, nelle aree centrali e meridionali.

Le misure relative al saldo di finanza pubblica hanno consentito il raggiungimento e il superamento dell’obiettivo di comparto, che è espresso nella sua articolazione da un saldo in conto capitale negativo, segnale di propensione, ancorché debole, alla spesa di investimento, oltremodo riequilibrato da un saldo corrente di oltre 8 miliardi di euro e da una richiesta di spazi finanziari superiore all’ammontare di quelli ceduti di 716 milioni.

IL COMUNE NON PUO’ SINDACARE LA FINALITA’ CHE SPINGE IL RICHIEDENTE A PRESENTARE ISTANZA DI ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO

TAR BRESCIA

Il TAR Lombardia – Brescia, con sentenza n. 10/2020 ha affrontato la questione dell’accesso generalizzato.

In particolare il Collegio ha affermato quanto segue:

Il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini d’interesse generale, si affianca, senza sovrapposizioni, alle forme di pubblicazione on line di cui al decreto trasparenza del 2013 e all’accesso agli atti amministrativi del 1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispirato, l’accesso alla generalità degli atti e delle informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli e associati, in modo da far assurgere la trasparenza a condizione indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della “cosa pubblica”, oltreché mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. III, 6 marzo 2019, n. 1546).

Con il D.Lgs n. 33/2013, infatti, viene assicurata ai cittadini la possibilità di conoscere l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni anche attraverso l’obbligo a queste imposto di pubblicare sui siti istituzionali, nella sezione denominata “Amministrazione trasparente”, i documenti, i dati e le informazioni concernenti le scelte amministrative operate (artt. 12 e ss.), ad esclusione dei documenti per i quali è esclusa la pubblicazione, in base a norme specifiche ovvero per ragioni di segretezza, secondo quanto indicato nello stesso decreto.

Dunque, l’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati, dei documenti e delle informazioni che sono considerati, in base alle norme, come pubblici e quindi conoscibili.

L’art. 5, comma 2, del D.Lgs n. 33/2013 consente ai cittadini di accedere a dati e documenti (detenuti dalle Amministrazioni) “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati individuati dal successivo art. 5 bis, conoscenza che deve portare a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.

Per facilitare il raggiungimento di tale obiettivo, la disciplina prevista per l’accesso civico generalizzato dispone che questo non sia sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente; l’istanza non deve essere motivata; deve esclusivamente limitarsi a indicare i dati, le informazioni o i documenti che si intendono conoscere.

I limiti all’accesso civico generalizzato sono individuati dall’art. 5 bis del D.Lgs n. 33/2013: il comma 1 prevede che esso debba essere rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti “interessi pubblici”: – la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico; – la sicurezza nazionale; – la difesa e le questioni militari; – le relazioni internazionali; – la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; – la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; – il regolare svolgimento di attività ispettive; il successivo comma 2 del medesimo articolo prevede che l’accesso generalizzato debba essere negato se ciò risulti necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti “interessi privati”: -la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; -la libertà e la segretezza della corrispondenza; -gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali.

Infine, va precisato che la finalità soggettiva che spinge il richiedente a presentare istanza di accesso civico non è sindacabile: anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate. Il controllo diffuso di cui parla la legge, infatti, non è da riferirsi alla singola domanda di accesso ma è il risultato complessivo cui “aspira” la riforma sulla trasparenza la quale, ampliando la possibilità di conoscere l’attività amministrativa, favorisce forme diffuse di controllo sul perseguimento dei compiti istituzionali e una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi democratici e al dibattito pubblico. In definitiva, l’accesso generalizzato deve essere riguardato come estrinsecazione di una libertà e di un bisogno di cittadinanza attiva, i cui relativi limiti, espressamente previsti dal legislatore, debbono essere considerati di stretta interpretazione.

Ebbene, alla luce dei principi sinteticamente esposti (per una approfondita ed accurata disamina delle problematiche connesse all’accesso civico generalizzato v. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 9 maggio 2019, n. 2486), il ricorso deve essere dichiarato in parte improcedibile ed in parte è, invece, fondato e va accolto.

Premesso che, nel caso in esame, non si prospettano problemi in ordine ai limiti all’accesso generalizzato di cui al ricordato art. 5 bis del D.Lgs n. 33/2013, si rileva che a fronte della due richieste di accesso presentate dalla ricorrente, l’Amministrazione Comunale ha depositato, in questa sede, quanto segue: 1) una comunicazione e-mail, inviata alla ricorrente in data 26.4.2019, con cui erano state trasmesse “alcune” (ma non tutte) determinazioni di assegnazioni degli alloggi; 2) tabulati con indicazione del patrimonio immobiliare comunale e delle locazioni attive/passive riferiti agli anni 2017 e 2018.

Dunque, in relazione a tali elementi, che costituivano parte delle richieste di accesso presentate dalla ricorrente, il ricorso va dichiarato improcedibile, atteso che le richieste in esse contenute sono stata (parzialmente) soddisfatte dall’Amministrazione Comunale.

…OMISSIS…

L’Amministrazione Comunale resistente dovrà, pertanto, provvedere a mettere a disposizione della ricorrente la documentazione richiesta e sopra meglio specificata

Il testo integrale della sentenza si trova a questo link