iL 15 marzo si è tenuta la 144 seduta della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, presieduta dall’on.le Bindi, nel corso della quale c’è stata l’audizione del Ministro dell’Interno Alfano, che era accompagnato dal prefetto Frattasi.
In considerazione dell’interesse dell’intervento del Ministro ho ritenuto di metterlo a disposizione dei lettori:
Grazie, signora presidente e onorevoli commissari. Desidero innanzitutto esprimere questo mio ringraziamento in forma sincera per l’opportunità che mi viene offerta di fornire a questo autorevole organismo una panoramica, che non sarà breve, sull’utilizzazione dell’istituto dello scioglimento degli enti locali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso previsto e disciplinato dall’articolo 143 del testo unico n. 267 del 2000. Articolerò il mio intervento in sei paragrafi. Il primo sarà dedicato all’inquadramento generale e al consuntivo delle attività svolte in sede di applicazione della norma di cui ci stiamo occupando. Il secondo proverà a tipizzare le cause per agganciare la fattispecie astratta ai casi concreti di scioglimento. Il terzo paragrafo affronterà la criticità del sistema e anche, a incastro, il caso Roma e dintorni. Il quarto riguarderà i temi che investono la necessità di riforma dell’articolo 143 in via normativa. Il quinto proporrà a questa Commissione l’ipotesi di un indirizzo delle attività di accesso in forma organica attraverso la predisposizione di linee-guida. Il sesto concernerà le ipotesi di riforma cui lei da ultimo faceva riferimento e qualche piccola conclusione.
Il mio excursus, come dicevo, sarà riferito in primo luogo ai provvedimenti che hanno avuto origine o che si sono comunque conclusi dal momento in cui ho assunto l’incarico di Ministro dell’interno. Perché quest’audizione venga ad avere una maggiore completezza possibile i dati che illustrerò si riferiscono sia agli accessi eseguiti dai prefetti, ancorché non ne sia poi seguita l’adozione del provvedimento di scioglimento, sia ai provvedimenti che hanno determinato lo scioglimento straordinario del consiglio comunale, cioè la misura più rigorosa prevista dalla norma, sia, infine, alle misure diverse dallo scioglimento adottate a carico del personale dirigente che pure trovano il loro fondamento nello stesso articolo 143. Intendo soffermarmi anche su alcuni aspetti che hanno portato a evidenziare profili critici, meritevoli, a mio avviso, di una riflessione ulteriore da parte anche del legislatore. Dico questo perché, se da un lato mi è ben noto – non foss’altro perché ero Ministro della giustizia – come l’istituto abbia già ricevuto una prima importante riforma nel 2009, dall’altro non mi sfugge come ulteriori esigenze di perfezionamento della disciplina, ribadite anche dall’esperienza più recente, siano altrettanto diffusamente avvertite e ritenute ormai ineludibili.
Lo scioglimento degli enti locali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento della criminalità organizzata di tipo mafioso consegue normalmente a un accesso ispettivo e al conseguente insediamento di una commissione d’indagine nominata dalla stessa autorità prefettizia. L’ordinamento, tuttavia, conosce anche forme di scioglimento per mafia in cui l’accesso in presenza di provvedimenti giurisdizionali di particolare gravità a carico degli amministratori locali non esige il conferimento di una delega ministeriale. Si tratta di una circostanza che si è verificata anche nel corso del mio mandato, legittimando i prefetti a intervenire direttamente senza che fosse necessario il conferimento di una delega da parte mia. È quello che è accaduto, per l’esattezza, in tre circostanze, che hanno riguardato due enti della Calabria, i comuni di Scalea e di Nardodipace, rispettivamente in provincia di Cosenza e di Vibo Valentia, e uno della Campania, il comune di Trentola-Ducenta, ubicato nel territorio di Caserta. In tutti questi casi i sindaci erano stati destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e, per effetto di essa, sospesi obbligatoriamente dalla loro carica, mentre nei due comuni calabresi le misure restrittive avevano interessato anche altri amministratori. Oltre a questi tre casi, dal 28 aprile 2013, data in cui ho assunto l’incarico di Ministro dell’interno, fino ad oggi sono stati attivati su mia delega 33 accessi presso enti comunali, circa uno al mese. Le attività ispettive hanno riguardato prevalentemente, ma non esclusivamente, le regioni meridionali, afflitte dallo storico insediamento delle mafie. Scendendo nel particolare, risulta che 9 accessi hanno riguardato altrettanti comuni della Calabria, 7 quelli della Sicilia, 5 quelli della Campania e 4, infine, quelli della Puglia. Le consegnerò, signor presidente, l’elenco dei comuni ispezionati, che qui ometto di ricordare uno a uno solo per ragioni di brevità. A questi 25 accessi si aggiungono quelli in cui lo strumento ispettivo è stato utilizzato per accertamenti presso l’azienda speciale silvo-pastorale di Enna e l’azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Come è noto, infatti, lo scioglimento per infiltrazioni e condizionamenti di tipo mafioso è un istituto che la legge estende opportunamente anche agli enti strumentali e alle aziende sanitarie locali e ospedaliere. Gli altri 8 accessi attivati dietro mia delega hanno interessato in 5 casi il Lazio, in 2 l’Emilia-Romagna e in uno solo la Liguria. I 5 comuni laziali su cui sono state attivate le verifiche sono quelli di Roma Capitale, Sant’Oreste, Sacrofano, Morlupo e Castelnuovo di Porto. Tutte le verifiche hanno trovato il loro innesco nelle risultanze dell’inchiesta su mafia capitale. In Emilia-Romagna gli enti comunali ispezionati ai sensi dell’articolo 143 del testo unico degli enti locali sono stati Brescello e Finale Emilia, rispettivamente in provincia di Reggio Emilia e di Modena. In Liguria l’accesso ha riguardato il solo comune di Diano Marina, ubicato nel territorio di Imperia. Mentre per Finale Emilia e Diano Marina non si sono rinvenuti elementi tali da sorreggere adeguatamente la misura dello scioglimento, per quello di Brescello le risultanze dell’accesso sono tuttora in valutazione. Va anche detto che il comune del reggiano è in questo momento già commissariato ai sensi dell’articolo 141 del testo unico degli enti locali, in conseguenza del consolidamento delle dimissioni del sindaco, il che comporterebbe comunque il rinnovamento dell’amministrazione elettiva nel prossimo turno elettorale primaverile, ove non venisse azionato lo scioglimento straordinario. Questo dato riguardante le infiltrazioni nel Centro e nel Nord Italia conferma che il fenomeno della progressiva estensione del rischio mafioso in quelle aree è contrastato non solo con l’uso delle interdittive, ma anche attraverso una generale azione di controllo della legalità che guarda all’attività dell’ente locale nel suo complesso e non limita la sua attenzione al settore dei contratti pubblici. Gli accessi ispettivi, sia quelli disposti di iniziativa, sia quelli attivati su mia delega, hanno portato finora all’adozione di 15 provvedimenti di scioglimento, di cui 14 deliberati nei confronti di altrettanti consigli comunali. Uno ha riguardato, invece, il X municipio del comune di Roma Capitale, nel quale è ricompreso il territorio di Ostia. Occorre, però, precisare che sono in corso di valutazione, e quindi pendenti, gli esiti di tre ispezioni, mentre altri 5 accessi non si sono ancora conclusi, sicché allo stato non ne sono note le risultanze. Allo stesso arco temporale a cui fa riferimento questa mia relazione si iscrivono altri provvedimenti di rigore, la cui adozione, sebbene venuta a concentrarsi quando avevo già assunto le funzioni di Ministro dell’interno, trova le sue origini in un periodo precedente. Sono 7 i decreti di scioglimento disposti in esito ad attività ispettive avviate prima del 28 aprile 2013. In questi casi, anche se non ho personalmente delegato l’accesso, ho comunque proposto io al Consiglio dei ministri l’adozione della misura dissolutoria. Anche in queste evenienze il numero maggiore di scioglimenti riguarda il Sud. Risultano peraltro concentrati in una sola regione. Infatti, i 6 comuni meridionali colpiti dalla misura sono tutti ubicati in Calabria – anche in questo caso vi fornirò a parte l’indicazione precisa – mentre l’altro comune sciolto è quello lombardo di Sedriano, che ricade nel milanese. Chiudo questo resoconto numerico aggiungendo alla lista altri due comuni, uno sito in Calabria, l’altro in Sicilia. Sono rispettivamente il comune di San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria e quello di Altavilla Milicia, che insiste nel territorio di Palermo. Per entrambi non era stato necessario svolgere l’accesso, essendo già emersi, in base alle indagini della magistratura, elementi inequivocabili che ne attestavano la compromissione mafiosa. Infine, anche per l’azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano, in provincia di Caserta, lo scioglimento non è stato preceduto dall’accesso e ciò a seguito di misure giudiziarie che hanno sopperito, per l’evidenza dei fatti accertati, alle verifiche amministrative. In conclusione, dal 28 aprile 2013 ad oggi sono 25 complessivamente i provvedimenti di scioglimento adottati ai sensi dell’articolo 143 del testo unico degli enti locali. Con riferimento a tali provvedimenti segnalo che i commissariamenti ancora oggi in corso sono 17, di cui 8 in Calabria, 4 in Sicilia, 3 in Campania, uno in Puglia e uno nel Lazio. Le cause principali – passo al tema della tipizzazione – che danno luogo allo scioglimento per mafia sono state oggetto di una sorta di tipizzazione, nel senso che sono stati enucleati, sulla base delle relazioni prefettizie, i motivi ricorrenti da cui scaturisce più frequentemente la misura di rigore. In primis rileva la circostanza che gli amministratori abbiano ricevuto l’appoggio delle consorterie criminali mafiose nell’ascesa agli incarichi di vertice dell’ente locale. È una condizione questa che fa percepire con immediatezza il rapporto di vera e propria sudditanza che talvolta può venire a intercorrere tra gli amministratori e le cosche. Viene, inoltre, in rilievo il coinvolgimento di figure intranee all’ente locale in riferimento a indagini o accertamenti penali che riguardino il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, il concorso esterno in tale delitto, o ancora reati aggravati dal metodo mafioso. Anche in questo caso la circostanza del condizionamento è avallata dalla partecipazione organica dell’amministrazione all’organizzazione criminale o dal suo fiancheggiamento. Altra causa è quella ravvisabile nell’atteggiamento compiacente che l’amministrazione adotta nei confronti di esponenti mafiosi, favorendo il corso di provvedimenti a cui sono interessati ovvero omettendo di adottare quelli a loro contrari, in dispregio, in entrambi i casi, delle regole di terzietà e trasparenza. In quest’ambito si collocano varie figure sintomatiche tra cui meritevoli di menzione appaiono le assunzioni o gli affidamenti di incarichi esterni a soggetti in odore di mafia o a persone a loro vicine. La quarta fattispecie che consideriamo di particolare rilievo è poi da ascrivere alle anomalie nel campo dei contratti pubblici o delle concessioni, settori nei quali notoriamente si esercita l’ingerenza mafiosa. Recentemente un fattore che viene all’attenzione è quello che riguarda la passività e l’indifferenza dimostrate da alcune amministrazioni locali nei riguardi dei beni sottratti alle mafie. Vi è a volte un’ostentata inerzia, che sembra ignorare le potenzialità che potrebbero invece derivare dall’assunzione diretta di tali beni o dal loro affidamento ad associazioni del no profit. Non sempre dietro questi atteggiamenti vi è la paura del contrapporsi alle mafie locali venendo allo scoperto. Talora, esattamente al contrario, si cela una calcolata volontà di impedire la destinazione sociale del patrimonio mafioso, assecondando l’egemonia territoriale delle cosche.
Vorrei svolgere un’ultima riflessione con riguardo agli atti di danneggiamento e di violenza commessi nei confronti degli amministratori locali e del loro patrimonio personale allo scopo di fiaccarne la resistenza e ottenerne l’asservimento. Personalmente sono convinto, e ne ho dato atto anche alla Commissione Lo Moro, che occorra rinforzare questo aspetto della prevenzione. È in questo senso che ho proposto l’estensione della normativa antiracket, con i dovuti adattamenti ovviamente, anche agli amministratori locali esposti alla pressione della criminalità organizzata che intendano rimanere liberi da ogni condizionamento. Passo alle criticità del sistema. Dentro questo ragionamento metto anche Roma. Il quadro che ho fornito circa i provvedimenti di rigore adottati nel periodo preso in esame non sarebbe completo senza un’annotazione che riguarda lo stato del contenzioso. In effetti, in due soli casi la magistratura amministrativa ha deciso l’annullamento del decreto di scioglimento. È accaduto per i comuni calabresi di Cirò e Joppolo, rispettivamente in provincia di Crotone e di Vibo Valentia. In entrambi i casi lo sfavorevole esito del giudizio è definitivo, essendosi pronunziato sul merito anche il Consiglio di Stato. L’esiguità delle circostanze in cui l’amministrazione è rimasta soccombente dimostra la cautela e il rigore con cui è valutato il quadro indiziario. Osservo anche che l’effetto sul piano esterno di una soccombenza frequente di un’amministrazione che abusasse del potere sarebbe terribile. Secondo l’articolo 143 nella novellata versione del comma 1 gli elementi posti a sostegno del giudizio di compromissione mafiosa dell’ente debbono presentare una precisa connotazione in termini di concretezza, univocità e rilevanza. In altre parole, anche secondo l’elaborazione giurisprudenziale lo scioglimento deve trovare ancoraggio in fatti circostanziati che abbiano un indubbio significato circa la permeabilità dell’amministrazione agli interessi della criminalità organizzata e che effettivamente siano stati in grado di incidere, limitandone l’esercizio, sull’autonomia e la libera determinazione dell’ente. Sono queste le condizioni in presenza delle quali il ricorso allo strumento dello scioglimento straordinario per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso risulta compatibile con i princìpi costituzionali che garantiscono l’espressione della volontà popolare. La necessità di rispettare i valori e gli interessi che vengono in gioco nei vari casi esaminati ha fatto sì che le misure di rigore, lungi da ogni automatismo, abbiano corrisposto a un criterio di ponderazione e di cautela in base al quale gli esiti degli accessi sono stati vagliati sotto il profilo della loro stretta congruenza con i requisiti di legge, non sempre derivandone lo scioglimento. Le esperienze a cui faccio riferimento hanno riguardato diverse situazioni, non soltanto quelle di Roma Capitale e degli altri 4 comuni del Lazio in cui gli accessi sono scaturiti dalla nota inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Roma. A questo specifico riguardo vorrei fare una notazione. Come è previsto dalla legge, lo scioglimento per mafia, concretando una forma speciale di intervento connotata dalla straordinarietà dei motivi, non rende sufficiente l’intervento del Ministro dell’interno, ma richiede la piena collegialità dell’atto, ossia che la decisione sia imputabile al Consiglio dei ministri nella sua interezza. Le conclusioni a cui si è giunti per Roma Capitale, anche per il rilievo internazionale della questione e per i suoi riflessi per l’intero Paese, hanno rispettato in pieno questo meccanismo di condivisione, in esito al quale la situazione ritenuta pienamente corrispondente agli stringenti requisiti di legge è risultata essere quella relativa al municipio di Ostia. In effetti, l’accesso ispettivo presso Roma Capitale ha fatto emergere un quadro di particolare gravità relativamente al territorio del X municipio e il principale fattore di deviazione e di condizionamento criminale si è manifestato con riguardo alla gestione del demanio marittimo. Vorrei, però, chiarire che, anche quando lo scioglimento non è intervenuto, sono state comunque apprestate misure di controllo e di monitoraggio calibrate di volta in volta sulle diverse situazioni disvelate dagli accessi ispettivi. Con riferimento al comune di Sacrofano l’articolo 143 del testo unico degli enti locali ha trovato applicazione, e specificamente nei confronti di due dipendenti nei cui riguardi sono stati riscontrati comportamenti inequivocabili di compiacenza e di cedevolezza rispetto agli interessi del gruppo malavitoso egemone, facente capo al noto Carminati. Sta di fatto che i due sono stati rimossi dagli incarichi ricoperti, con contestuale avvio del procedimento disciplinare. Tali misure sono state confortate anche dalle decisioni della magistratura amministrativa, che ha rigettato le istanze cautelari proposte dagli interessati. Per quanto riguarda, invece, i rapporti tra il sindaco Tuzzi e la persona di Salvatore Buzzi, è stato rilevato come queste frequentazioni fossero temporalmente collocate nel 2013, cioè prima che si palesasse lo spessore criminale del Buzzi. Inoltre, i rapporti di vicinanza tra l’importante esponente dell’amministrazione di Sacrofano e una figura del calibro di Buzzi, per quanto riprovevoli sul piano deontologico, sono apparsi aderenti a forme di clientelismo politico-amministrative piuttosto che integranti quel condizionamento mafioso richiesto dall’articolo 143 del testo unico degli enti locali. Nelle restanti situazioni che hanno interessato gli altri 3 comuni del Lazio le risultanze dell’attività ispettiva non hanno suffragato, come ha evidenziato anche il prefetto di Roma, alcuna ipotesi dissolutoria, né provvedimenti sanzionatori di altra natura. Tuttavia, su mia precisa indicazione, dallo scorso dicembre è stato attivato presso la prefettura di Roma un gruppo di esperti composto da personale del Ministero dell’interno con esperienze di accesso presso enti locali della Campania e della Calabria per un costante monitoraggio dei comuni di Sant’Oreste, Sacrofano e Morlupo. Queste tre amministrazioni verranno controllate nell’attività posta in essere negli ambiti più sensibili fino al prossimo mese di dicembre e anche oltre, se sarà necessaria una proroga della misura. In questo quadro è stata richiesta anche la collaborazione della procura della Repubblica e dell’Autorità nazionale anticorruzione per una valutazione e una lettura più attente di eventuali elementi sintomatici di infiltrazione criminale. Quest’attività di osservazione potrà anche sfociare – questo mi sembra importante sottolinearlo – in una ripetizione dell’accesso, che è espressione di un potere non consumabile ed è, invece, rinnovabile in presenza di nuovi sintomi o di nuovi segnali. Nessuno di questi è un capitolo chiuso. Come si ricorderà – vado al quarto paragrafo, quello che riguarda la possibile riforma dell’articolo 143 – anche per il comune di Roma Capitale, prima che intervenisse lo scioglimento ordinario, erano state definite misure di monitoraggio che avrebbero portato il prefetto di Roma a esercitare forme di verifica dell’attività di risanamento dell’ente. Si era delineato, in altri termini, un processo di ripristino della legalità dell’attività amministrativa all’interno del quale il ruolo del prefetto si atteggiava in termini di sostegno collaborativo. Questo percorso di ristabilimento, che già in passato era stato applicato per le amministrazioni locali, trovava il suo fondamento non certo nell’articolo 143 del testo unico, ma nei princìpi generali che regolano la cooperazione istituzionale. Sopraggiunto lo scioglimento, sovrintende sulla macchina del Campidoglio il commissario straordinario, la cui attività, informata naturalmente anche alle esigenze di ripristino dell’ordinato funzionamento dei vari dipartimenti e uffici, è essa stessa, a nostro avviso, garanzia di vigilanza, di legalità e di trasparenza, sicché potrà proseguire, nei limiti temporali collegati alla residua durata del commissariamento, la puntuale attività di verifica che ha già visto al lavoro il prefetto Tronca e il suo staff. Si tratta di un’attività che si avvarrà anche del recente rapporto del presidente Cantone sulle sistematiche distorsioni che sembrano emergere nelle procedure di carattere contrattuale e che richiedono urgenti misure correttive. Ritornando al discorso sull’applicazione dell’articolo 143 del testo unico e sui limiti che la norma sembra mostrare, evidenzio quella che, a mio parere, resta la principale carenza ordinamentale. La norma non contempla, infatti, misure diverse da quella dissolutoria, anche quando gli elementi, sebbene non sufficienti a giustificare l’extrema ratio dello scioglimento, richiedano tuttavia soluzioni meno traumatiche, ma non meno efficaci a riportare l’amministrazione sui binari di una maggiore correttezza legalitaria. Si tratta di un vuoto legislativo che non può essere colmato efficacemente da interventi di sola supplenza amministrativa.
Del resto, si fa strada da tempo l’idea che, in sostituzione di sanzioni afflittive, si possano proficuamente applicare misure di carattere «terapeutico» che non comportino l’interruzione delle attività da parte degli organi ordinari, né il loro allontanamento definitivo, ma il loro affiancamento con l’intervento mirato di commissari ad acta e di tutor. È ciò che è accaduto, per esempio, recentemente in tema di reati societari, allorché sono state apprestate misure, che sono state affidate all’ANAC e ai prefetti, che vanno in questa direzione per importanti società del nostro Paese. Non sarebbe illogico trasporre questo concept anche all’area della tutela legalitaria delle amministrazioni locali, arricchendo così lo strumentario di un’ulteriore misura cautelare preventiva, non essendo francamente, a mio avviso, plausibile che tra il provvedimento di scioglimento e la sua mancata adozione non possa trovare spazio intermedio alcuna ipotesi fondata su una più avanzata forma di controllo collaborativo. Passo al tema delle possibili linee-guida. La questione di cui voglio parlare nasce dall’esecuzione delle attività di accesso. È del tutto evidente, infatti, che dalla conduzione delle attività di accesso vengono a dipendere l’esaustività degli accertamenti e la conseguente capacità di far propendere, con quel rigore necessario a cui accennavo, verso l’ipotesi dissolutoria. Si avverte poi l’esigenza, fin da quando questo strumento di verifica legalitaria è stato attivato, che il quadro degli elementi raccolti dalla commissione di accesso abbia in sé la necessaria congruenza circa il grado e l’intensità dell’inquinamento mafioso. In altri termini, è altamente raccomandabile che il giudizio sulla ricorrenza o meno dei presupposti per far luogo allo scioglimento non venga a dipendere esclusivamente dalle rivenienze giudiziarie, peraltro soggette, per loro natura, alla possibilità di un riesame, con eventuali conseguenze inevitabili sull’impianto accusatorio dell’indagine amministrativa. Per fare questo è necessario che i componenti delle varie commissioni di accesso, ferma restando la loro autonomia operativa, abbiano a disposizione una metodologia di lavoro basata su un modello di indagine da replicare nei vari contesti. Si tratta, in sostanza, di fare sì che un’attività delicatissima venga a seguire un preciso archetipo, anche per massimizzare l’utilità del tempo a disposizione dei commissari, non più determinato ad libitum, bensì normativamente indicato nella sua massima estensione in 180 giorni. Con apposite linee-guida potranno puntualmente essere definiti gli ambiti amministrativi in cui dovranno concentrarsi l’ispezione, le attività indispensabili da svolgersi e le modalità di raccolta, nonché di analisi dei dati. Si tratta di un documento di indirizzo fondato sui risultati di un’autoanalisi che la stessa nostra amministrazione ha, peraltro, già condotto nel corso di svariati master e che sarà oggetto proprio a breve di una mia direttiva rivolta ai prefetti e ai componenti delle commissioni di indagine.
Arrivo all’altro punto e vado a concludere. Lo scioglimento degli enti locali per condizionamento e inquinamento mafioso si è rivelato, in più di vent’anni di vita e di applicazione, una misura di grande ausilio nella prevenzione e nel contrasto dei fenomeni degenerativi dell’amministrazione locale. La riforma del 2009 ha poi apportato all’originario impianto normativo indubbi miglioramenti che rendono oggi la disciplina di questo istituto più completa ed efficace. Non penso solo alla possibilità di aggredire i casi di inquinamento riferibili al comportamento dei dipendenti infedeli, che pure rappresentava, prima del 2009, un punto debole, ma anche all’istituto dell’incandidabilità, che – badate bene – è del tutto autonomo e indipendente da quello organicamente disciplinato dalla cosiddetta legge Severino. A questo proposito, consentitemi di ricordare come la sentenza dello scorso 15 settembre della prima sezione della Cassazione civile abbia fatto chiarezza sull’applicazione di tale forma di limitazione del diritto di elettorato passivo, eliminando interpretazioni minimaliste che portavano a vanificare l’efficacia sanzionatoria dell’istituto. I giudici di legittimità hanno, infatti, messo in luce quanto ho appena detto, cioè che non ci può essere una portata minimalista dell’interpretazione della norma. Gli stessi giudici, tuttavia, hanno evidenziato l’insufficienza di un dettato normativo su cui, proprio per questo, come riferiva poco fa anche il presidente Bindi nella fase dell’introduzione, il Governo ha già sottoposto alle Camere una proposta di modifica che intende superare in radice ogni incertezza applicativa con l’indicazione di un termine fisso pari a quello stabilito per tutte le altre cause di incandidabilità. Nella stessa proposta sono contenute norme nuove, che contengono misure ulteriori per il rafforzamento della capacità operativa delle commissioni di gestione degli enti locali sciolti. L’azione di queste commissioni, quelle che gestiscono gli enti sciolti per mafia, anche grazie all’apporto dei prefetti potrà, dunque, con questi interventi da noi suggeriti, risultare più incisiva nel recidere le cause dell’infiltrazione del malaffare, che purtroppo, come l’esperienza dimostra, possono continuare a inquinare anche dopo una prima misura di scioglimento.
Anche qui si intende dare sostegno all’attività dei Commissari e indirizzarne il percorso amministrativo, indicando loro gli ambiti tematici prioritari sui quali occorre concentrare l’attività gestoria, ossia l’urbanistica, il commercio, l’edilizia e lo smaltimento dei rifiuti, tutti settori sensibili, nei quali si annida il rischio di contagio mafioso, come evidenziano le stesse motivazioni poste alla base dei provvedimenti di scioglimento. Più in generale, il pacchetto delle disposizioni messe a punto dal Governo mira a rafforzare l’approccio professionale ai complessi problemi di governo delle amministrazioni colpite dallo scioglimento, un approccio che andrebbe diversificato anche in ragione della diversa natura giuridica e della diversa funzionalità dell’ente sottoposto alla misura di rigore, apparendo evidente che il risanamento di un’azienda sanitaria postula formule e forme di intervento spiccatamente manageriali, che non sembrano adattabili ad altri contesti. Non voglio allargare il raggio, ma la stessa cosa l’abbiamo notata con le aziende sottratte alla proprietà mafiosa. L’intento – e concludo – è quello di dare nuovo slancio a un istituto che noi riteniamo essere stato davvero meritorio. Ne abbiamo apprezzato la grande utilità e anche la forza simbolica di strumento di riscatto civile, ma dobbiamo riconoscerne i limiti e, dunque, riconoscere anche l’esistenza di spazi migliorativi che ne potenzino ancora la funzione risanatrice. Vi ringrazio per l’attenzione.